Tra le tante persone che il Coronavirus si sta portando via, c’è anche Luis Sepúlveda.
Ieri, 16 aprile 2020, è morto a Oviedo, Spagna, dopo un mese di ricovero, lo scrittore cileno che ha segnato profondamente la mia infanzia e quella di molti altri.
Nato ad Ovalle, Cile, nel 1949, ha iniziato la sua carriera da scrittore molto giovane, pubblicando il suo primo libro di racconti Cronicas de Pedro Nadie, per poi ricevere il Premio Casa de Las Americas.
Da sempre impegnato nella lotta civile, finisce in carcere dopo il golpe del 1973; lì viene torturato finché Amnesty International non interviene e riesce a farlo liberare. Una volta esiliato dal Cile, si reca prima in Brasile e poi in Paraguay, dove inizia la sua attività di drammaturgo e la sua collaborazione con l’Unesco.
Questi anni lo formano da un punto di vista artistico e scrive Il vecchio che leggeva Romanzi d’amore, continuando poi il suo impegno civile e unendosi a Green Peace. Poco dopo pubblica Il potere dei sogni, Cronache dal cono Sud , Patagonia Express, Il mondo alla fine del mondo, Un nome da torero, la frontiera scomparsa e molti altri.
Sicuramente il mestiere dello scrittore non è un lavoro semplice, ma a volte succede che molti scrittori, carichi del successo, finiscano per ostentare una certa superiorità, perdendo di vista il loro ruolo: quello di raccontare qualcosa e farlo bene. E Sepúlveda aveva ben in mente quest’immagine, tanto che, in un’intervista, disse così:
“Ogni volta guardo con preoccupazione quando la letteratura si trasforma in una sorta di dimostrazione della saggezza dello scrittore, della sua enorme cultura e dimentica la cosa fondamentale: che la letteratura è essenzialmente raccontare una storia e raccontarla bene, solo questo ti avvicina alla gente che ti legge”
Trovo queste parole di profonda ispirazione per chiunque.
Ecco chi era Sepúlveda, uno scrittore e soprattutto un uomo che aveva a cuore chi sta dall’altra parte. Un uomo che è stato torturato per aver combattuto per dei diritti, che troppo spesso diamo per scontati.
Diamo per scontata anche un’altra cosa: la parola orale che diventa scritta.
“La passione per la parola scritta -da quella orale a quella scritta- avviene quando i genitori hanno l’intelligenza di leggere ai figli, quando sono piccoli, ad alta voce, una storia tutti i giorni; questo permetterà loro, quando cresceranno, di avvicinarsi alla parola scritta con la stessa passione di quando, da piccoli, ascoltavano storie raccontate dai genitori”.
E chi non si è fatto leggere la Storia di una gabbanella e del gatto che le insegnò a volare? Sicuramente il suo romanzo più celebre.
La trama è molto semplice e piena di significati al tempo stesso: c’è uno stormo di gabbiani che si getta nel mare del Nord e riemerge con aringhe fresche intrappolate nel becco, tranne Kengah, che riemerge ricoperta di petrolio sulle sue ali argentate. Ed è il petrolio di cui è intriso quel mare ad ucciderla poco dopo, non prima di aver deposto il suo uovo su un balcone di Amburgo e aver strappato al gatto Zorba, “proprietario” di quel balcone, tre promesse: non mangiare l’uovo, avere cura del piccolo e, soprattutto, insegnargli a volare una volta nato.
La cooperazione tra gli animali emerge fin dalle prime righe: Zorba, appena vede la gabbiana ricoperta di petrolio, cerca di alleviare le sue pene leccandole le piume e andando a cercare aiuto. Durante tutta la narrazione, non viene mai meno alle promesse fatte e anche i gatti che lo aiutano (Colonnello, Segretario e Diderot), in quanto gatti del porto e ligi alla morale dell’altruismo, fanno lo stesso.
In un punto del romanzo, dopo che la gabbanella è nata e ha iniziato a crescere con loro non riconoscendosi più come tale, ma come gatto e sentendosi fuori posto, Sepúlveda fa dire a Zorba queste parole:
“É molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei gabbiano e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare”.
La terza promessa, infatti, era la più complessa: insegnare a Fortunata (è questo il nome che le viene dato) a volare, ma lei ha molta paura, come tutti abbiamo paura dell’ignoto.
Alla fine riesce a volare, però dopo svariati tentativi andati male. Infatti i gatti, dopo aver capito che le serviva una mano, decidono di chiedere un aiuto agli umani, ai quali di solito non parlavano e non chiedevano aiuti.
Tutte le volte che un animale lo ha fatto è finito in una gabbia, come i leoni, che sono costretti ad intrattenere il pubblico permettendo che qualche “cretino” infili la testa nelle loro fauci, o come i delfini, creature straordinariamente intelligenti, costretti a divertire il pubblico con i tipici salti nei cerchi. E che dire di quando gli umani hanno tentato di aiutare gli animali e hanno provocato più danni, sebbene inconsapevolmente? E che dire dei danni provocati consapevolmente da quella “dannata mania di avvelenare il mare con la loro spazzatura”?
Passati al vaglio vari candidati, decidono di puntare su un poeta, l’unico umano che, a tutti gli effetti e nonostante lo sconvolgimento iniziale di un gatto nero e grasso che inizia a parlargli, aiuta la gabbianella a volare.
A questo punto mi sono chiesa: perché Sepúlveda sceglie proprio un poeta?
Molto probabilmente perché i poeti e chi fa della letteratura, se non perdono di vista l’obiettivo principale che li ha portati su quella strada, sono gli unici in grado di andare oltre i confini del reale e afferrare qualcosa di ineffabile e inafferrabile, che chi non guarda con gli occhi – passatemi il termine pascoliano – innocenti del fanciullo, non riesce vedere.
L’eredità di questo grande scrittore è tutto questo, e mi sono limitata soltanto a un romanzo.
Fin dalle prime righe si sente la forte critica sociale e l’impegno politico: dal petrolio che uccide Kengah, con quella sensazione di oppressione che sentiamo come un masso sullo stomaco, alla cooperazione tra animali, cosa che gli umani hanno perso; dalle tacite leggi del porto all’unico umano adulto che aiuta la gabbianella a volare.
Mi piace pensare che Sepúlveda stia volando con quella gabbianella, con noi che, come Zorba, guardiamo in alto e lo vediamo spalancare le ali e dirigersi verso l’ignoto, con le lacrime (o forse la pioggia) che ci bagnano il volto.