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Adesso fate silenzio, date la parola ai giovani

Con l'emergenza sanitaria il Governo, una volta di più, si è dimenticato dei giovani

Da quando il mondo intero è alle prese con l’emergenza da coronavirus, si è parlato molto, anche troppo. La digitalizzazione delle informazioni consente un flusso ininterrotto di notizie in tempo reale, che in molti casi stordisce, confonde e soprattutto satura.

Le piattaforme di dibattito virtuale sono ormai un fiorire sempre nuovo di illazioni e qualsiasi canale mediatico si concentra sull’unico e solo argomento all’ordine del giorno: la pandemia. Il coronavirus ha scalzato via qualsiasi altro tema. Non si sente più parlare di guerre, di impatto ambientale, dei tortuosi percorsi dei migranti respinti alle frontiere.

Siamo vittime consapevoli di una logica sempre più pervasiva e ossessiva che ha raggruppato e ben nutrito le nostre peggiori fobie e le schizofrenie più insospettabili. Erano già lì, naturalmente, a bollire in pentola, borbottanti come fagioli, in attesa di potere finalmente esibirsi senza più pudore, in tutta la loro aberrante ragion d’essere.

Politici, virologi, medici, giornalisti e opinionisti proseguono i loro fervidi confronti, con buona pace di chi li ascolta da casa, il quale si ritrova sballottato da un canale all’altro come da una previsione all’altra, passando da esigue minoranze che ancora ribadiscono che andrà tutto bene, ai lugubri scenari della più parte, secondo cui il virus straccerà le nostre esistenze e ci ridurrà a essere dotati del solo automatismo per uscire a fare la spesa.

La verità è che tutti si affannano a definire un prima e un dopo, tutti dicono la loro in un ansioso crescendo di autoconvincimenti.

Ma coloro a cui il futuro appartiene in linea generazionale non sono mai stati interpellati. I giovani rappresentano una categoria che è stata spazzata via insieme ai dibattiti sul clima.

Se l’ipotesi che il mondo a cui eravamo abituati non tornerà più è una prospettiva poco rincuorante per persone di settant’anni, figuriamoci cosa produce nei giovani di venticinque. Avere tutta la vita davanti è un privilegio nella misura in cui gli si attribuisce del senso e al momento quel senso è stato spogliato di ogni aspettativa e di ogni risorsa. E questa condizione comprende allo stesso modo gli studenti e i neolavoratori.

Chi oggi ha tra i diciotto e i trent’anni ha già dovuto fare i conti con il risultato di manovre economiche che hanno messo in crisi la scuola, i posti di lavoro e il modello di valori su cui si faceva fede in passato. Il conseguente spaesamento che ne è derivato ha investito più fronti, compreso quello ideologico e affettivo, e il nostro futuro ne era già impregnato.

Ora, con l’arrivo della pandemia, ci troviamo definitivamente e inesorabilmente sbaragliati. Non solo perché le poche e vaghe certezze su cui contavamo sono ormai inesistenti, sepolte sotto il peso di una crisi inedita dagli esiti imprevedibili, ma anche perché a nessuno sembra importare di attribuire un ruolo e una voce a coloro che un domani sostituiranno la classe dirigente attuale, ritrovandosi ad abitare un presente che, se prima presentava tinte fosche, adesso è inghiottito da una parabola distopica senza precedenti.

Mi sembra superfluo ricordare che la vita di un giovane è definita in gran parte dalle esperienze sociali. Rasi al suolo i luoghi di incontro, sbarrate le porte delle università, dei bar, dei locali, dei cinema, delle biblioteche, dei centri sportivi, aboliti i viaggi e qualsiasi tipo di relazione fisica con lo spazio e con l’altro, ci siamo ritrovati a galleggiare all’interno di una bolla evanescente, dimenticati dai vertici delle autorità, a malapena accennati all’interno delle nuove disposizioni ministeriali.

Il problema rappresentato dai sette milioni di studenti che frequentano ancora il liceo è stato sbrigativamente risolto con un “tutti promossi”, una soluzione che mortifica non solo il valore dell’istruzione, ma anche il lavoro degli insegnanti. La maturità è stata minimizzata a un solo colloquio orale, l’ennesima contrazione di un esame bistrattato al punto che ci si chiede se non sarebbe più saggio abolirlo del tutto.

Gli atenei universitari sono abbandonati a loro stessi, con vaghe e irrisorie promesse di riaperture a settembre, ma in nessun prospetto governativo esiste un vero piano che si occupi di gestire il rientro degli studenti all’interno degli edifici scolastici e la loro affluenza. La questione non pare tanto improrogabile quanto il ticchettio delle lancette sull’orologio della produzione. In Italia, lo sblocco delle fabbriche è ritenuto decisamente più impellente del ritorno all’istruzione, declassata come sempre ai margini delle priorità da parte dello stato.

Ma anche gli stessi stagisti o coloro che avevano da poco avviato un contratto di lavoro a tempo determinato si ritrovano nuovamente a riempire le fila dei disoccupati o meglio, data l’età che hanno, a sognare un mestiere. Gli stage, infatti, non consentono per legge la possibilità di avvalersi dello smart working e, nonostante l’eccezionalità della situazione abbia spinto le regioni a nuovi e frettolosi provvedimenti per sostenere i tirocini, è evidente che migliaia di giovani dovranno affrontare un orizzonte lavorativo che promette sempre meno.

E così, dopo quasi due mesi di isolamento forzato qualunque reazione viene scambiata per uno scatto sovversivo, da sedare immediatamente. Dopo avere assistito all’impoverimento subitaneo di tutto ciò che prima contribuiva a nutrire le nostre esistenze, ci viene chiesto solo di restare a casa. Il presupposto è che i giovani siano mossi unicamente dalla loro proverbiale euforica incoscienza e che passino il tempo a tramare feste e uscite in sordina. Siamo potenziali imperdonabili untori.

Questa costante infantilizzazione consente dunque un atteggiamento minimizzatorio e superficiale che punta a disfarsi dei giovani come categoria, invece di ritenerli teste pensanti, coi quali dialogare e mettersi in relazione.

Relegati a una coatta e inerme passività, vediamo i nostri più naturali istinti puntualmente trascurati, come è accaduto con l’emanazione della tanto decantata fase 2, che in principio consentiva le visite ai soli parenti. Anche in questo caso, chi ci governa sembra non considerare che per un giovane è più importante andare a trovare un coetaneo piuttosto che un “congiunto” dai fumosi legami di sangue.

Proteggere gli anziani è un nobile gesto degno di un Paese civile, ma in mezzo alle sentenze, alle teorie e alle ipotesi a raffica che da mesi si sono impadronite di qualunque spazio mediatico, dilagando come un inarrestabile flusso dittatoriale, consultare i giovani sarebbe il segnale che i vertici al potere arretrano quel tanto per rendersi conto che il futuro su cui si affannano a decidere le sorti è prima di tutto di chi ha poco più o poco meno di vent’anni.