Rivolgiamoci ora alla concezione – molto diffusa fin dall’Illuminismo – del Medioevo come epoca oscurantista. L’idea è che, in questa epoca culla del fanatismo, chiunque la pensasse diversamente dalla dottrina ecclesiastica su qualsivoglia tematica sarebbe stato condannato a pene orribili.
Dare credito a questa visione è ironico per due motivi: primo, perché il Medioevo ci ha consegnato alcuni luminosi esempi di tolleranza e convivenza; secondo, perché un quadro oscurantista si adatta a tratti più al Rinascimento (ovvero alla Controriforma) che non all’Età di Mezzo. Vediamo come.
San Grande Fratello
Molti immaginano la Chiesa medievale come un regime monolitico e onnisciente, che con i suoi tentacoli – monasteri, vescovi, inquisitori – esercita un controllo totalitario sulle coscienze di tutti gli abitanti della Christianitas. Questa immagine non corrisponde alla realtà storica.
Fin dai tempi di Costantino il papato si vide costretto a mediazioni, talvolta pesanti, con le pressioni della potente aristocrazia laica romana e, fino al 476 d.C., con l’autorità imperiale. Seguì un periodo di sostanziale osmosi tra signori feudali e principi della Chiesa, durante il quale la Chiesa divenne un centro di potere in mano ai nobili secolari come gli altri. Il movimento della Riforma Gregoriana riuscì a porre rimedio solo tramite un periodo di contrasti molto accesi.
La guerra delle investiture è la chiara dimostrazione che al potere ecclesiastico si contrapponeva il potere imperiale, in una antitesi concreta e minacciosa per gli interessi della Santa Sede.
Non mancavano i dissidi interni alla Chiesa. San Bernardo di Chiaravalle ebbe a che fare con la sua nemesi, Abelardo, e con un antipapa, pur riuscendo a catalizzare il consenso della maggioranza. Anche i momenti di maggior coesione ecclesiastica furono vissuti internamente: la consapevolezza del mondo secolare era ben diversa. Innocenzo III, il papa dal pugno di ferro che trasformò la Chiesa in una teocrazia, dovette confrontarsi con l’autorità imperiale di Federico II.
Ha ben rilevato Régine Pernoud che l’evento più rappresentativo della potestà pontificia nel Medioevo fu la predicazione della Prima Crociata nel 1095. Papa Urbano II, in seguito alla scomunica del re di Francia, fu costretto ad evitare i suoi domini nel corso del suo “viaggio di Stato” onde evitare l’arresto. Ciò nonostante riuscì a mobilitare migliaia di persone in un’impresa militare incerta e pericolosissima grazie al carisma e alla credibilità suoi e del soglio pontificio. L’autorevolezza dei papi medievali non è quella imposta dalle armi di un dittatore, bensì quella che gli europei dell’epoca attribuivano di Dio e che, di riflesso, investiva anche il Santo Padre.
L’età medievale si conclude con il periodo della cattività avignonese. Dal 1309 al 1377 i papi risiedettero ad Avignone, ridotti a meri burattini del re di Francia, come dimostrano lo scioglimento dei Templari – per citare l’esempio più celebre. Questa situazione causò al papato le veementi accuse di Caterina da Siena. La Santa Sede fu asservita al potere di un re temporale e contemporaneamente esposta alle critiche dei dissidenti interni.
Non proprio l’incontrastabile dittatura che ci immaginiamo noi moderni, forse per associazione con i regimi totalitari del Novecento.
Incontri: il paganesimo
Abbiamo già parlato del fecondo dialogo tra Classicità e intellettuali medievali. Altro ambito fondamentale per comprendere lo sviluppo culturale dell’Occidente è quello dei rapporti tra cristiani e genti di fedi opposte, come gli arabi o i pagani. Come la Chiesa non fu un totalitarismo onnisciente, anche il Cattolicesimo non fu una ideologia impermeabile alle influenze esterne.
Il primo incontro cui la Chiesa fu costretta è quello con i pagani, letteralmente gli “abitanti dei villaggi”. Essi coltivavano ancora credenze di matrice celtica e superstizioni arcaiche in virtù del loro isolamento rurale.
La Chiesa riuscì a diffondere le devozioni esterne del cattolicesimo tra di loro – i rituali, la Messa, la confessione – ma per lungo tempo non riuscì a prevalere sulle loro coscienze. Ci vollero secoli, durante i quali la Chiesa per forza di cose convisse con usanze contrarie alla sua dottrina.
Persino nella diffusione della ritualità cattolica diede prova di un notevole acume e di una notevole apertura, perché si elaborò a trovare punti di connessione tra cristianesimo e paganesimo: l’obiettivo era consentire al popolino di abbracciare la nuova religione senza aver l’impressione di rinnegare i vecchi miti, da cui si sentivano più legati spiritualmente.
Il primo stratagemma fu adattare il suo calendario festivo alle ricorrenze preesistenti. La scelta del 25 dicembre come Giorno della Natività è l’esempio più famoso. Il secondo stratagemma fu equiparare la fede cattolica a una norma sociale, a un paradigma di comportamento. Si va a messa la domenica non per fede, ma perché è ciò che fanno le persone rispettabili e perché il parroco è uno dei notabili della città: sapendo far di conto, sapendo scrivere ed essendo in contatto con il vescovo, che a sua volta era in contatto con Roma, egli era necessario per la pubblica amministrazione.
Il terzo stratagemma fu ricercare le assonanze e le similitudini che la religione cristiana condivideva con i vari culti pagani. Esempio sovrano è quello del Santo Graal, il calice dell’Ultima Cena. Dottrinalmente si tratta di una delle reliquie meno importanti del cristianesimo; non c’è paragone con la Sindone o la Vera Croce. Però nel Medioevo tutti conobbero le leggende su questo sacro calice e la Chiesa ne incoraggiò la popolarità – la cattedrale di Genova e quella di Poznàn conservano anche delle “reliquie” che nei tempi medievali erano venerate come il Graal.
Il mito del Graal colpì tanto perché è la revisione di miti celtici sui calderoni magici, ancora molto diffusi nelle campagne europee del Medioevo – basti pensare alla pentola d’oro che in Irlanda si racconta essere sepolta là dove inizia l’arcobaleno. La Chiesa gli diede veste cristiana e lo incoraggiò perché, con il tramite di questa devozione, contribuì a traghettare il fervore dei contadini dai miti antichi alla nuova religione.
Incontri: gli eretici
Come ogni religione il Cristianesimo dovette fare i conti con gli oppositori interni, ovvero quegli individui o gruppi che predicavano una dottrina o un esercizio del potere spirituale diversi da quelli propugnati dalla Chiesa di Roma. Tali oppositori sono detti “eretici”, che in greco significa “coloro che scelgono” una dottrina diversa da quella ufficiale.
Il fenomeno ereticale è tipico del Basso Medioevo. Prima la dottrina cattolica era ancora in fase di sviluppo, i culti pagani erano radicatissimi – e talvolta cedevano alla superstizione persino i parroci – e la situazione politica rendeva più urgenti altre materie come le carestie e le costanti invasioni. A partire dal XII e, in misura minore, dal XI secolo invece gli eretici prosperano: Gioacchino da Fiore, Pierre de Bruys, Amaury de Bene e via discorrendo.
Occorre precisare che nel Basso Medioevo il cattolicesimo era già divenuto un formante del tessuto sociale: se fosse venuto meno, anche la società avrebbe dovuto reinventarsi. Questo avrebbe richiesto una gestazione e una trasformazione culturale che non sarebbero state prive di conflitti più o meno violenti. Gli eretici erano odiati perché rischiavano di portare anarchia. Questo spiega perché, per la maggior parte, essi furono uccisi da folle di contadini inferociti o da signori feudali laici: Pierre de Bruys nel 1131, arso vivo su un rogo da lui appiccato per bruciare delle croci, o Abelardo, che molti credevano un eretico e che infatti fu quasi lapidato durante un viaggio. Raramente queste esecuzioni – ma sarebbe più appropriato “omicidi” – furono precedute da un regolare processo canonico.
La Chiesa emanava condanne per lo più dottrinali, ovvero rivolte non all’eretico ma alle eresie. Per motivi di fede e di propaganda non chiuse mai le porte alle conversioni, le quali erano viste come una vittoria: non ci vuole niente alla Chiesa per bruciare una persona, la vera vittoria è che la fede cattolica convinca una coscienza. Se Pierre de Bruys fosse stato scortato davanti al suo vescovo e al processo avesse chiesto di essere riammesso nel gregge cristiano, probabilmente gli sarebbe stato concesso.
Paradossalmente è proprio per contenere questa crescente violenza che a cavallo tra 1184 e 1252 nacque l’Inquisizione. Essa si poneva come un organo giudiziario atto a monopolizzare la totalità dei processi contro gli eretici, così da garantire un giusto processo: in tal modo si sarebbero evitati gli eccessi dei villici e la giustizia sommaria che spesso anche per la Chiesa era ingiustificata. La maggior parte delle pene consisteva nell’apporre segni distintivi sugli abiti o nel costringere a pellegrinaggi più o meno lunghi; più rare erano le reclusioni e quasi residuali le condanne a morte. L’unico momento in cui l’autorità secolare poteva intervenire era quello dell’attuazione della condanna, se il clero non poteva portarla avanti esso stesso per proibizioni morali – il caso tipico era il rogo.
A chi vede in questo il segno di un’epoca fanatica, ricordo che il Rinascimento fu il secolo delle guerre di religione e delle persecuzioni. Tali fenomeni raggiunsero nel Cinquecento dimensioni ben superiori a quelle del Medioevo.
Clementia
È importante capire il perché di questa trasformazione attitudinale tra Medioevo e Rinascimento, soprattutto perché va contro il senso comune. Non dovrebbero essere più feroci i medievali?
No, perché in epoca medievale l’egemonia ecclesiastica era fuori discussione. Non esisteva laicità, ma solo laicato. Citando Jacques Le Goff la categoria spirituale dell’ateo era un’ipotesi scolastica.
Tutti gli eretici credevano nel Dio cristiano, alcuni credevano anche nella Chiesa; le opinioni divergevano solo su particolari della dottrina teologica o sull’amministrazione concreta della cosa ecclesiastica. La quasi totalità degli europei era cattolica, e non c’era cattolico che non rispettasse la Chiesa. In una simile situazione di forza incontrastata era possibile per la Santa Sede dimostrare clemenza.
Fu Martin Lutero a cambiare le regole del gioco: al contrario degli eretici medievali, non propone riforme della chiesa, ma ne invoca l’abolizione; al contrario degli eretici medievali, elabora una dottrina così diversa da non essere più cattolica.
Questo accadde nell’epoca in cui gli europei, dato che i tempi sono cambiati e che sono emerse nuove spinte sociali, come le identità nazionali e l’umanesimo, non avvertono più il legame intimo che legava gli europei medievali alla Santa Sede. Il terreno per le idee protestanti è fertile e la Chiesa ha una sola scelta: diventare reazionaria. Non può più permettersi clemenza, perché il rogo degli eretici è l’unico deterrente per impedire la propagazione della Riforma. Nel Medioevo di quel deterrente non ci fu bisogno.
La Rivoluzione Francese
La storia del pregiudizio anti-medievale subisce un’ulteriore svolta con la Rivoluzione Francese.
Dato che l’ideologia di Robespierre e dei suoi sodali era illuminista, scelsero come simbolo dell’Antico Regime l’epoca storica che più l’Illuminismo odiava: il Medioevo. Il pregiudizio ideologico si aggravò e divenne un pregiudizio sociale e politico. Fu una logica per esclusione. Se gli illuministi apprezzavano la l’estetica romana e la cultura rinascimentale del Cinquecento e si erano diffusi tra Sei e Settecento, cosa restava da disprezzare? Soltanto l’Età di Mezzo.
Solo che il Medioevo non poteva simboleggiare l’Antico Regime, perché molte sue caratteristiche peculiari erano ben diverse.
Servitù
I manuali scolastici dipingono una immagine costante della servitù della gleba: una situazione nera di sostanziale schiavismo in cui i contadini soffrono e i padroni feudali gongolano sulle loro schiene spezzate dal lavoro agricolo. Tale condizione di sfruttamento viene narrata come parte di un ciclo interrotto dalle varie rivoluzioni: in Europa i contadini si videro riconosciuti dei diritti per la prima volta grazie alla Rivoluzione Francese e per l’ultima in Russia grazie alla Rivoluzione d’Ottobre.
È falso che i servi della gleba medievali non possedessero diritti. Il primo diritto era quello di ricevere protezione dei nemici esterni o dai criminali interni dal feudatario, ovvero dai suoi cavalieri nel primo caso e dalla sua giustizia nel secondo. Il secondo diritto era quello di ricevere l’usufrutto della terra e degli strumenti agricoli in cambio dei tributi che versava. Il terzo diritto era quello di non essere cacciato – diritto che nei secoli successivi al Medioevo fu frainteso e interpretato come un’impossibilità di migrare verso migliori condizioni.
Soltanto che fino al Duecento l’unica fonte di ricchezza per i laici non nobili fu la terra. In realtà i contadini erano molto contenti di non potersi spostare, perché significava che la terra che coltivavano non poteva essergli alienata e che, catastrofi permettendo, non avrebbero patito la miseria e l’indigenza. È falso che non disponessero di proprietà private ed è falso anche che grazie al loro acume e alla loro capacità non potevano migliorare la propria posizione: alcuni contadini divennero amministratori delle proprietà terriere di monasteri.
Dopo questa analisi preliminare possiamo tracciare uno schema della società medievale: il re supervisiona e garantisce l’ordine sociale, mentre i contadini e i nobili utilizzano decime e protezione come merce di scambio. Ciascuno dei due aveva bisogno dell’altro per sopravvivere. Buona parte dei miti sulla servitù della gleba medievale fu influenzata da eventi successivi all’epoca in questione.
In primo luogo, l’ascesa dell’alta borghesia e del latifondo, che stravolse la vita rurale in quasi tutta Europa. Lo schema si arricchì di un agente e perse di funzionalità: ora il re supervisionava, i nobili percepivano le decime senza che fosse più necessaria la loro protezione continua e i borghesi campavano sul sudore dei contadini, che stavano alla base. Questo è l’Antico Regime contro cui insorsero i rivoluzionari, non quello medievale (segnalo che anche questa interpretazione dello schema sociale latifondista ha un suo forte critico nello storico Pierre Gaxotte e in altri illustri storici, ma la ho riportata perché è quanto postulava l’ideologia rivoluzionaria. In ogni caso anche le altre interpretazioni non si oppongono all’idea di un Medioevo misconosciuto).
In secondo luogo, tra Seicento e Settecento i latifondisti ricercarono nel diritto consuetudinario di epoca medievale l’appoggio per pretese sempre più gravose sui contadini. Tali interpretazioni giuridiche dei documenti medievali furono però utilitaristiche e, di conseguenza, viziate. Ecco cosa accadde.
Per ordinamento consuetudinario si intende un regime giuridico in cui le regole non si impongono perché volute dall’autorità (il re o il feudatario) o perché scritte in un testo di legge, ma per effettività: se un’azione o una prassi si reiterano per un periodo di tempo congruo senza che sorgano anche modelli alternativi di comportamento, allora quell’azione diventa una consuetudine vincolante ed è doveroso rispettarla. Allo stesso modo se una consuetudine viene disattesa per un certo periodo di tempo cessa di essere vincolante. Questo capitava spesso con le tasse: poniamo, come esempio inventato, che ogni contadino di Montpellier versasse al signore un quarto del suo raccolto. Se il contadino fosse partito per un pellegrinaggio o il signore per una guerra, al ritorno probabilmente la consuetudine sarebbe decaduta. Lo stesso sarebbe accaduto in caso di carestie prolungate o di pestilenze.
Insomma, le tasse medievali cambiavano ad una velocità disarmante. I latifondisti assoldarono dei professionisti degli archivi, che si riunirono anche in una corporazione, per risalire a ogni singola tassa diffusasi di cui rimanesse traccia per poterla reintrodurre. Solo che reintrodussero concentrate nello stesso periodo, a spese del medesimo bracciante, tasse che si erano succedute nell’arco di secoli su intere generazioni di braccianti, producendo un carico effettivamente strangolante sui contadini. Carico cui nessuno nel Medioevo era stato sottoposto.
E per concludere ci si riferì con l’espressione “servitù della gleba” anche alla condizione dei contadini russi della tarda epoca zarista: una situazione di vessazioni e stenti degni delle descrizioni illuministe, che però ha poco a che fare con la sua omonima medievale.
Potere regale
Altro grande nemico ideologico e politico dei rivoluzionari fu l’assolutismo monarchico. Il miglior modo di spiegare la concezione assolutistica della regalità è tramite due citazioni. La prima è “quod placuit principi, habet vigorem legis”, ovvero “ciò che è gradito al principe ha valore di legge”. La seconda è “l’État c’est moi”, ovvero “lo Stato sono io”. Entrambi mostrano come il potere di un monarca assoluto sia sovrano, perché non vi è superiore cui sia sottoposto; arbitrario, perché è vincolato da prassi o principi, neanche etici; e esclusivo della figura del monarca. Per capire se i rivoluzionari avessero ragione a calare questa realtà sei-settecentesca – l’ultima citazione è attribuita al Re Sole – nella società medievale, dobbiamo operare un raffronto tra fonti coeve e testi di storici.
È molto difficile descrivere la regalità medievale perché essa cambiò di significato e attuazione nel corso dei mille anni del Medioevo, soprattutto di territorio in territorio. Dopo la caduta dell’impero carolingio capitò che i vassalli avessero un potere pari o superiore a quello dei loro re. Era un periodo di invasioni, dove l’incastellamento portò alla creazione di miriadi di singoli centri di potere poco estesi. Il pomposamente chiamato re di Francia era in realtà il signore della contea di Parigi, per esempio, e molti suoi vassalli detenevano possedimenti più estesi o fertili dei suoi. Questo comporta che avessero armate più numerose e tesori più ricchi.
È il caso dei conti provenzali o di Guglielmo d’Aquitania, detto il Trovatore, nobili francesi che furono più potenti del re di Francia. In Inghilterra, invece, le invasioni anglosassoni diedero l’avvio a una pletora di regni, di cui sette principali, da cui il nome di Eptarchia. Nessuno di tali re fu mai un sovrano o un monarca perché, in alcune occasioni, tra loro emerse un Bretwalda, ovvero un Gran Re, il cui ruolo fu sostanzialmente quello di primus inter pares.
Analizzando la situazione dall’Anno Mille in poi si scopre questo: i re medievali continuarono a essere soltanto re, non monarchi né sovrani. Vale a dire che, pur portando la corona e detenendo un potere superiore a quello dei feudatari, non esercitarono mai un potere sovrano, né arbitrario, né esclusivo come quello postulato dalla teoria assolutistica.
Schiavitù
Ultimo fatto degno di nota è l’assenza di fenomeni di schiavismo nell’Europa medievale.
La schiavitù ha contraddistinto pressoché ogni civiltà umana dai Sumeri in poi. Le piramidi, il Colosseo, i templi greci statunitensi sono stati costruiti da schiavi anziché da operai stipendiati, per non parlare della situazione americana o britannica. Anche molti Paesi arabi e asiatici trafficarono e impiegarono manodopera schiavizzata. Il Medioevo fugge da questa dinamica.
Il merito va principalmente all’ideologia cristiana, che predicando la presenza di un’anima in ciascun essere umano e l’uguaglianza di ogni anima rispetto alle altre rese impossibile qualsivoglia giustificazione morale all’utilizzo o all’impiego di schiavi. Neanche ebrei, musulmani o pagani vennero schiavizzati, perché non sarebbe servito a convertirli.
L’Europa iniziò a commerciare in schiavi, pur evitandone impieghi plateali nelle “grandi opere” sul continente, a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo. Con la fine dell’epoca medievale, in pieno Rinascimento, la schiavitù tornò in auge. Questo significa che, quando l’opinione pubblica salutava le ultime opere di Michelangelo e Raffaello, centinaia di migliaia di schiavi soffrivano nelle mani dei mercanti europei, che mai li avrebbero trafficati qualche secolo prima, quando ogni domenica i contadini si riunivano nella navata della parrocchia.
Spostando il centro della discussione sul dialogo nella cultura medievale, non possiamo che rivolgerci anche all’aspetto religioso: è falso che il Medioevo generò unicamente crociate e roghi.