Avete presente quando parlate con qualcuno che avete appena conosciuto? Si passa attraverso tutta quella serie di domande di circostanza che in fin dei conti servono nelle prime fasi di una nuova conoscenza: come ti chiami? Quanti anni hai? Lavori o studi?
Se all’ultima di queste domande si propende per la seconda opzione, inevitabilmente seguirà un altro quesito legato al precedente: che cosa studi? E se come la sottoscritta risponderete :”Beni culturali” di fronte a voi si apriranno due possibili scenari. Chi esclamerà entusiasta :”Bello!” a cui farà seguire un interrogativo :”Ma che cos’è?”. Oppure, chi dirà in maniera altrettanto compiaciuta :”Quindi frequenti l’Accademia di Belle Arti!”.
Posti di fronte a questa situazione per l’ennesima volta, a voi non resterà che rispondere con un affranto e sbrigativo: “Studio storia dell’arte“. Frase alquanto riduttiva per descrivere quello che realmente facciamo. Perché beni culturali non è storia dell’arte. O meglio, non è solo questo.
Probabilmente questa confusione origina dal fatto che oggi si parla molto di beni culturali e di patrimonio culturale, ma pochi ne hanno un’idea precisa. Questo perché di per sé l’espressione “bene culturale” vuole dire tutto e al tempo stesso quasi nulla. Una definizione nata volutamente ampia, dai contorni sfumati e che è stata formulata per la prima volta in tempi recenti.
Era il 1954 quando a l’Aia si fermò la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. Non è difficile immaginare per quale motivo si sentisse la necessità di un tale trattato internazionale. Nel secondo dopoguerra, parlando in maniera strettamente culturale, dell’Europa era rimasto davvero solo uno scheletro. Pensiamo alle distruzioni perpetrate dagli Alleati (episodio tristemente celebre è il bombardamento che colpì Santa Maria delle Grazie a Milano e che lasciò illeso il Cenacolo) o alle confische di mano nazista (prassi ben descritta dal film del 2014 diretto e interpretato da George Clooney, The Monuments Men).
Facendo un ulteriore passo avanti nella definizione di “bene culturale”, bisogna ricordare la Commissione di studio Franceschini. Voluta dal nostro Parlamento nel 1964 per censire il patrimonio archeologico, artistico e paesistico italiano, si parlò di “testimonianza materiale avente valore di civiltà“.
In realtà, dopo gli anni 2000, questa definizione è stata in parte superata. Alle testimonianze materiali si sono affiancate anche quelle immateriali, svincolandosi così dall’idea che bene culturale sia esclusivamente un oggetto concreto. Si vuole piuttosto affermare che qualsiasi testimonianza dell’umanità e dell’ambiente sia degna di essere conservata e promossa nella sua conoscenza.
In sintesi, che cosa si studia quando si decide di intraprendere la strada di beni culturali? Potenzialmente, qualsiasi realtà portatrice di valore per il nostro patrimonio. Di nuovo, un’espressione volutamente ampia, come se non volesse trovare una sua forma definitiva, proprio perché si tratta di un mondo, quello della cultura, che non può e non deve avere costrizioni.
Forse è anche per questo motivo che chi studia beni culturali si trova in difficoltà quando deve spiegare ciò di cui si occupa e spesso si riduce a una sbrigativa eppure più comprensibile risposta come :”Studio storia dell’arte”.
Non dovremmo farlo, dovremmo piuttosto prenderci del tempo per spiegare cosa facciamo e perché lo facciamo. E anche se la risposta dovesse essere il solito :”Fai bene, l’Italia è il paese più ricco di cultura al mondo” almeno potrete dire di averci provato.