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Caccia a Babbo Natale

Qualcuno salvi il Natale

Secondo round di pandemia: vince il virus; le restrizioni e le chiusure sono arrivate in un batter d’occhio, quando ancora l’estate non aveva lasciato il posto alla stagione delle foglie cadenti e delle castagne. Siamo in una valle di dolori, però a colori.

Dopo Pasqua e Ferragosto, anche il Santo Natale è vittima dei decreti che piovono come pugni. Nel cuore di molti batteva la speranza che almeno questa festività si potesse preservare. E invece neanche la sacralità che la connota è riuscita a fare da scudo: la spada affilata del virus ha tagliato le gambe a Babbo Natale.

La speranza si è trasformata in illusione fino a diventare un paradosso: il Natale è stato snaturato.
La casa non sarà Barilla e Gesù Bambino si vedrà anticipare la nascita. Saranno contenti coloro che hanno sempre detestato la famiglia del Mulino Bianco, lo stress dietro alla tavola da bandire per il grande giorno e gli schiamazzi dei bambini che corrono per casa mettendo a repentaglio l’arredo della nonna.

Nella fumosità burocratica, l’unico punto fermo è che gli spostamenti non sono consentiti se non per comprovate esigenze lavorative o di salute. Stando così le cose viene favorito un comportamento antitetico a quello che lo Stato vuole impartire quotidianamente.
Non smettono di ricordarci quanto possano essere letali i bambini, i giovani in generale, per i nonni.

Incessantemente ci viene ripetuto che dobbiamo preservare gli anziani, ma tutti tacciono sulle conseguenze psicologiche di questo modus operandi. La demenza senile e la depressione si muovono silenti in questi mesi e possono aggravarsi sino a sfociare in mortalità se non forniamo ai più deboli una ragione di vita; si muore anche di inedia. E’ noto che non vi sia un farmaco che possa alleviare le pene del cuore.

Continuamente vi sono richiami ai temi di integrazione e disuguaglianza. Tuttavia il sistema scolastico vigente rappresenta l’esatto contrario della narrazione di integrazione; un sistema via via sempre più iniquo che non consente la partecipazione di tutti alla vita civile. Allo stesso modo i giovani si stanno abituando a coltivare rapporti esclusivamente virtuali, che nuocciono alla salute perché li rendono meri spettatori delle vite altrui. Privati dell’immaginazione si ritrovano in un presente che non lascia spazio all’autodeterminazione. Dunque la domanda d’obbligo è: perché separare le famiglie e costringerle a rompere le tradizioni anziché invitarle alla solidarietà? 

I sacrifici richiesti sono innumerevoli e sebbene sia in un favore di un bene comune, la pazienza è prossima al capolinea. Oserei dire impossibile non trovare qualcuno che in questo anno non sia stato preso da un sentimento sfumato, un insieme di nostalgia e di tristezza dei giorni di pioggia, una certa inquietudine e una paura sottile che poi si perde nella noia e nell’insoddisfazione. Sono gli ingredienti per una ricetta di infelicità. Si sa, in una guerra la prima regola è non sparare sulla croce rossa.

Emblematica è la recente copertina del celebre periodico statunitense The New Yorker dal titolo provocatorio “Love life”. L’illustratore Adrian Tomine si serve di ogni dettaglio per evocare profondi racconti. Un monitor sempre acceso, un cocktail appena versato, una chat aperta e i pacchi di Amazon ancora chiusi. Un affresco di arte contemporanea dove il caos regna sovrano.
Da sinistra a destra dell’emisfero, il dolore emotivo accomuna tutti a tal punto che il Time, senza giri di parole, ha condannato il 2020 come l’annus horribilis per antonomasia. Lo slogan “andrà tutto bene” oggi risulta vuoto. Viviamo con la dolorosa convinzione che il futuro non sarà roseo e prospero. A ciò si aggiunge il presentimento che con l’anno nuovo subiremo nuovi paradigmi di vita.

Sentore dei tempi che stanno mutando è la pubblicità di Natale della Coca Cola, un appuntamento liturgico molto atteso, che quest’anno porta in scena l’eroe ai tempi della pandemia: l’operaio. Attraverso il tema del viaggio, fiabesco e rocambolesco, lo spot invita a dare maggior risalto alle cose semplici ma essenziali.

In questo contesto il Natale assume ancora più importanza: ben oltre ciò che rappresenta dal punto di vista religioso, la festività è salvifica per ciò che crea. E’ un rito propiziatorio, un ricostituente del legame comunitario. E’ una tradizione che andrebbe rispettata proprio quest’anno in cui abbiamo perso il ritmo.

Vittime della cattiva politica oltre che del virus, ci incamminiamo a passi molto rapidi verso il vaccino, ma bisogna stare in guardia: i miracoli spettano ai Santi, al governo spetta invece prepararsi adeguatamente alla convivenza con il nemico.

Per quanto l’Italia sia un paese curabile, non è altrettanto guaribile dalle ferite del 2020. All’inizio della pandemia le persone mostravano solidarietà dai balconi; in un secondo momento le piazze inferocite hanno sostituito gli allegri balconi e i karaoke di marzo sono diventati cori di protesta.

Il nuovo anno è alle porte, sarebbe bello ritrovarsi in primavera a cantare sui balconi “sembrava la fine del mondo ma sono ancora qua”. Eh già.