Cos’è la giustizia? Un concetto mutato
Non è facile dare una risposta alla domanda su cosa sia per noi la giustizia. Proviamo a chiedercelo e proviamo a chiederci il perché di quella risposta.
Se con grande sforzo risalissimo la sua genealogia ci troveremmo dinnanzi mille vie che ci ricondurrebbero tutte fino agli albori della nostra civiltà, laddove la giovane umanità si porse per la prima volta la domanda, cos’è la giustizia?
Dalla sua nascita i significati che ha assunto sono cambiati, cresciuti, adattandosi a contesti e necessità diverse e allo stesso tempo creando nuovi modi di vivere e guardare il mondo. Il termine ha, tuttavia, avuto lo sfortunato destino di essere stato sovrautilizzato e, come la moneta durante una crisi inflazionistica, si è inevitabilmente depauperato di valore.
Com’è successo che dall’essere il carattere fondante, che ha inaugurato la nascita della società civile per come la conosciamo, il baluardo su cui si fonda l’intero edificio della legge, della politica e del nostro agire, sia diventata una parola alla cui pronuncia dobbiamo temere un commento disilluso dalla controparte?
Da carattere intrinseco di un certo popolo la Giustizia è divenuta suo ideale utopico.
Thomas Piketty, uno dei punti di riferimento del mondo economico contemporaneo, tenta di dare una risposta al perché di una fine tanto crudele. La sua, è vero, è una riflessione che potrebbe essere interpretata come meramente economica, ma è nel suo modo di porre il problema e affrontarlo che possiamo ravvisare un certo spirito filosofico, in quanto si presenta come il tentativo di coniugare economia, politica e sociologia mediante uno sguardo di ampio respiro.
Thomas Piketty e la sua analisi
La nozione di giustizia dell’economista francese prende infatti le mosse dall’evoluzione che il concetto ha subito nei secoli precedenti, sotto la spinta di un gran numero di fattori eterogenei, e dagli effetti che le sue differenti attribuzioni di senso hanno prodotto sulla costituzione del contemporaneo assetto sociale, economico e politico. L’esempio delle società schiaviste, in particolare il caso di Haiti, è particolarmente esplicativo in questo senso:
il paese è stato il teatro di una delle più grandi rivoluzioni anticolonialiste della storia. Migliaia di schiavi si sono conquistati la libertà al suono delle loro spade e del loro sudore. Ma la giustizia nel XIX secolo era molto lontana da qualsiasi concezione possiamo averne noi oggi: il giusto in quel contesto era che gli ex schiavisti venissero ripagati dagli schiavi stessi del danno subito dalla perdita della loro proprietà, secondo la logica “devi pagare per esserti conquistato la libertà”. Haiti dovette pagare un debito, equivalente al 300% del suo Pil, alla Francia che esaurì solo nella metà del ‘900. Un secolo ovviamente in cui qualsiasi progresso di tipo economico o politico era reso impossibile dall’incombere dell’ingente somma da versare annualmente. La Francia oggi si guarda ancora bene dal risarcire a sua volta l’isola di un secolo di esproprio illegittimo, i cui effetti sono ancora più che tangibili.
Un’idea da costruire giorno per giorno
È allora importante porre innanzitutto una premessa metodologica. Non si tratta, come non si è mai trattato, del tentativo di formulare una definizione di giustizia che sia assoluta ed esaustiva per ogni tempo e ogni luogo. Anche se esistesse un’idea di giustizia in sé, la sua conoscenza non sarebbe appannaggio delle possibilità di conoscenza dell’uomo, perciò bisogna fare nostre le parole del J.S Mill quando afferma che: “L’unico modo in cui ci si può avvicinare un po’ alla conoscenza globale di una questione è quella di ascoltare quello che ne hanno da dire le persone di tutte le diverse opinioni, e di studiare tutti i vari modi in cui la può vedere la mente umana, a seconda dei diversi punti di vista”.
Quello che possiamo fare, ed è così che Piketty procede, è rendere la storia maestra: osservare i vari modi in cui gli uomini hanno vissuto, gli assetti culturali, politici ed economici a cui via via si sono sottoposti, per studiarne i limiti e le possibilità. La storia (in tutte le sue declinazioni) è un contenitore di prove ed errori, progressi e regressioni, a cui attingere per proporre oggi una via che sia la migliore, in termini di effetti prodotti, per il contesto odierno.
La giustizia come uguaglianza delle condizioni di partenza
Piketty non solo ricostruisce la genesi delle disuguaglianze odierne, ma propone sulla base di una capillare analisi economica una strada di reale percorrenza, per giungere a una condizione di sostanziale uguaglianza. Viene messa così in scacco la posizione diffusa che vede nella povertà una colpa innanzitutto dell’individuo che non è stato in grado di farsi strada nel mondo delle possibilità infinite, così come sarebbe un merito del ricco se è divenuto tale: un’ideologia che ignora volutamente la complessità dei meccanismi che reggono il mercato e la società. Il “giusto” viene infatti identificato con l’uguaglianza delle condizioni di partenza dei diversi attori sociali, ovvero l’ingrediente fondamentale per permettere a ogni individuo la piena realizzazione di se stesso e quindi la piena espressione delle sue potenzialità.
L’uguaglianza delle condizioni di partenza è da sempre stata la grande promessa dei partiti socialdemocratici che hanno guidato l’Occidente per buona parte del secolo scorso. Due sono gli ingredienti principali del successo delle loro politiche: una tassazione progressiva sulle proprietà e politiche sociali di Welfare. Tra il 1950 e il 1980 infatti le disuguaglianze sui tassi di reddito raggiungono i minimi storici, come conseguenza di precise politiche fiscali e sociali; il benessere in quegli anni dilagava.
Il caso della Svezia…
Il caso della Svezia è esemplare in quanto l’avvento della socialdemocrazia, al potere dagli anni ’30 del ‘900, ha significato un calo drastico delle disuguaglianze e un aumento dei diritti sociali, quindi un aumento complessivo del benessere dei cittadini. Queste forme di governo sono sostanzialmente fallite. La socialdemocrazia non è cioè riuscita a “dar vita a nuove forme federali e transnazionali di sovranità condivisa e di giustizia sociale e fiscale”. La causa del fallimento viene intravista da Piketty dall’incapacità dei partiti di sinistra di perseguire con tenacia e costanza quelle politiche sociali e fiscali che erano ancora neonate e avevano bisogno di raffinamento e collaborazione interstatale.
…e i suoi effetti
L’effetto è stato quello opposto, cioè l’emergere incontrastato di una controforza di destra neoconservatrice che puntava a un azzeramento del ruolo dello stato sul piano economico, promuovendo il liberalismo sfrenato, tendenza a cui infine anche la sinistra ha finito col piegarsi. Così la disillusione politica è dilagata, preceduta da una disillusione economica, data soprattutto dalla perdita di fiducia della classe dei lavoratori nei confronti delle istituzioni vigenti.
Quello che l’economista allora propone è semplicemente un via reale che permetta l’attuazione sostanziale di quello che le democrazie hanno proclamato e proclamano tutt’ora come loro obiettivo principale: le pari opportunità di tutti per permettere il fiorire della società in ogni sua declinazione. Scopo raggiungibile tramite una libera circolazione dei beni attraverso un interventismo statale volto a impedire la formazione di concentrazioni alte di capitali per lunghi periodi di tempo.
Il socialismo partecipativo
La proposta di Piketty è quella che lui stesso chiama col nome di “socialismo partecipativo”.
Si tratta di un insieme di interventi volti all’obiettivo di fondare una società giusta che trascenda definitivamente il capitalismo e la proprietà privata. L’obiettivo è quello di arginare il più possibile il problema dell’accumulazione di capitale, che impedisce ai beni di circolare e che infine impedisce all’ideale liberale della libera concorrenza di attuarsi, a causa della creazione di monopoli. Il superamento allora della proprietà privata deve avvenire attraverso la miscela di tre soluzioni tra loro complementari:
- il passaggio alla proprietà pubblica (lo stato diventa proprietario dell’azienda);
- la proprietà sociale (i lavoratori partecipano alla gestione delle aziende e condividono il potere con gli azionisti privati);
- la proprietà temporanea (ogni anno i proprietari privati più ricchi devono restituire alla collettività una parte del loro capitale per consentire la circolazione dei beni e ridurre la concentrazione della proprietà privata e del potere economico).
Quest’ultima soluzione sarebbe perseguibile tramite una tassazione progressiva sulla proprietà poi destinata alla ridistribuzione sociale. Facendo anche convergere gli interessi dell’azienda con quelli del lavoratore, rendendo quest’ultimo proprietario in parte della stessa azienda in cui lavora, se ne migliorerebbe inevitabilmente la produttività e quindi il guadagno, che andrebbe infine a beneficio della collettività intera.
Perché “socialismo partecipativo”?
Si tratta di un socialismo partecipativo, in quanto pone al centro la partecipazione collettiva degli agenti sociali, esulandosi completamente dal modello stato-centrico del comunismo sovietico, così come dal modello monopolistico del capitalismo contemporaneo. Attenzione particolare è infatti riservata all’istruzione, denunciandone soprattutto l’ipocrisia attuale. La differenza tra le possibilità di accesso alle migliori università, soprattutto in America, è abissale e questo determina un’altrettanta profonda differenza nelle possibilità lavorative successive. Una disuguaglianza riducibile tramite una tassazione progressiva sulla proprietà.
Centrale è anche la tassazione sull’eredità: tema ancora tabù in molti stati, ma che livellerebbe la distanza tra i diversi ceti, che deriva da un’accumulazione per la quale i giovani di buona famiglia non hanno alcun merito di aver prodotto. La visione di Piketty, quindi, si identifica con un importante intervento statale nell’economia, tuttavia, non volto a una sua inibizione, ma a un suo miglior funzionamento nella produzione di benessere.
Un approccio scientifico e una soluzione reale
La sua non è una posizione ideologica passibile di essere facilmente sostituita con un’altra: la bontà della sua teoria sta nell’aver dimostrato, attraverso una raccolta impressionante di dati storici ed economici, che le condizioni in cui versa la maggior parte delle persone sono profondamente ingiuste, in quanto derivanti da assetti istituzionali ormai riconosciuti come illegittimi, che hanno più miseria che benessere. È necessario per questo un’idea di giustizia che sia globale.
L’unico fine universale che possiamo attribuire alla vita umana è quello di puntare allo stato di maggior benessere, la giustizia allora si dovrebbe identificare con uno stato di cose che permetta tale conseguimento. In questo modo ci si libera anche dalla cattiva convinzione che un ordine delle cose diverso dal presente sia impossibile, che le cose come sono sempre state sempre saranno. Si tratta infatti di una brutta interpretazione di quello che l’uomo è stato e delle possibilità che ha di essere nel futuro: il cambiamento è possibile, la storia ci ha insegnato che l’uomo è in grado di mettere in atto modalità estremamente varie di frequentazione del mondo se posto in determinate circostanze.
Il cammino della giustizia è stato e sarà lungo e tortuoso, ma se voltassimo le spalle alla strada già percorsa, ci ritroveremmo addossati del titanico compito di fornirne un significato ex nihilo, senza appigli per poter delineare cosa essa possa essere oggi e cosa sarà un domani.