Cos’è la politica?
In un tempo in cui la politica prende sempre più le sembianze di un gioco lontano ed estraneo alla vita di ognuno, su cui noi come cittadini abbiamo un sempre maggiore senso di impotenza, la domanda circa il suo significato diventa tanto ineludibile quanto viene nei fatti evitata.
Per questo motivo, trovando difficilmente risposte davanti a noi, possiamo provare a volgere il nostro sguardo indietro di qualche anno. Se ripercorriamo all’indietro la storia delle nostre democrazie, possiamo riconoscere il loro più clamoroso tramonto in quel breve ma fatale periodo fra le due guerre mondiali. Proprio lì la volontà popolare venne ammutolita dalla micidiale mano dei totalitarismi.
Dalle macerie che hanno lasciato è però emersa la voce di una grande filosofa, Hannah Arendt, che con una raffinata capacità critica ha cercato di riesumare le cause di un tanto fatale fallimento.
Il suo mondo politico…
Perché Hannah Arendt? Innanzitutto vale la pena spendere due parole su questo grande personaggio. Donna, filosofa (anche se lei avrebbe preferito essere chiamata politologa) ed ebrea, Hannah Arendt rimane una delle più brillanti pensatrici che il pensiero occidentale novecentesco abbia conosciuto. Costretta a scappare dall’avanzare della nera nube del nazismo, si trasferisce in America, dove lavorerà come giornalista, professoressa e attivista.
Arendt dedica le sue riflessioni principalmente all’ambito politico. Il suo forte interesse sorge dalla consapevolezza della necessità di rifornire di contenuto un concetto che ne era stato violentemente svuotato. Avendo del resto vissuto in prima persona il drammatico crollo dei sistemi democratici europei e il sorgere incontrastato di feroci dittature, la domanda circa il fondamento e il significato stesso della politica diventa per lei necessaria.
…e il nostro
Ed è qui che sta la sua attualità: non si cerca in alcun modo di equiparare la crisi in cui versa il nostro attuale sistema politico con il divampare del fuoco totalitario, ma di ritrovare, con l’aiuto della filosofa, quegli elementi senza i quali non è più possibile parlare di politica e che, anche se in misura per molti versi diversa e minore, stanno lentamente venendo meno anche qui ed ora, come la Arendt, infatti, anche noi non possiamo fare a meno di constatare la forte malattia in cui versa la nostra idea di politica.
La lotta per il potere fine a se stessa ha finito con l’avere la meglio su coesione e collaborazione nel momento in cui queste più che mai erano necessarie per la nostra stessa sopravvivenza. Il rancore e la frustrazione sono stati fomentati, battendo sui 280 caratteri di Twitter o su imbarazzanti video TikTok, da quegli stessi uomini politici che avrebbero dovuto spegnerli. La politica ha fallito laddove doveva invece trionfare.
Allora forse, come la Arendt, non possiamo che, se non curare, quantomeno ricercare i sintomi della patologia.
Il suo pensiero
Cerchiamo di capire cosa volesse dirci la filosofa tedesca.
Possiamo partire dal cardine di tutto il suo pensiero politico, ovvero la perfetta equazione tra politica e democrazia: la politica è per definizione stessa democratica. Essa sorge nello spazio che si instaura tra cittadini liberi e uguali, ed è in quello spazio che si esplica. La sua dimensione spaziale include di conseguenza l’impossibilità di pensare a un potere verticale, ma solo orizzontale, che elimini le condizioni stesse di possibilità del binomio governati-governanti. Sono gli stessi cittadini nel momento in cui si incontrano, agiscono e portano avanti le loro posizioni a creare politica. È infatti solo nella loro reciproca relazione che gli uomini si riconoscono come portatori di istanze ed è nella loro reciproca azione che si riconoscono nella loro unicità.
L’idea Arendtiana di politica è allora radicalmente inclusiva. Lo spazio politico ha come primaria condizione d’esistenza un accordo tra le parti al biunivoco riconoscimento e quindi al loro rispetto in quanto allo stesso tempo uguali (in quanto uomini come noi) e diversi (in quanto portatori di istanze particolari). Il loro dialogo, con tali premesse, non sarà allora nient’altro che costruttivo. Non nel senso di esente da conflitti (la Arendt è tutt’altro che ingenua), ma produttore di idee condivise, in cui quelle più deboli vengono scansate dall’incontro dialogico con quelle più solide.
“Volontà democratica”
Le idee e i valori nascono nell’incontro e nella discussione, nell’isolamento reciproco non rimane che lo spazio per il proliferare di frustrazione e odio. In questo senso il potere deve essere azione e pluralità.
La politica si costruisce tra gli individui, non su di loro.
Non significa fare a meno della leadership, in una società ramificata e complessa come la nostra sarebbe utopia. Semmai quello che dovremmo intravedere nelle parole della filosofa è un invito a ripensare al fondamento stesso del potere.
Un potere democratico dovrebbe essere sostenuto unicamente sulla volontà collettiva, ma questa può produrre un vero potere che la rappresenti solo se al suo interno è in grado di far proliferare idee, bisogni e desideri. Una condizione possibile unicamente a partire dalla possibilità di trovare spazi di vero dialogo e discussione, che lascino emergere una vera “volontà democratica”. L’isolamento delle idee, reso ancora più drastico dall’emergere dei social come spazio politico, è il principale nemico di una società che vuole dirsi democratica.
Come possiamo farla parlare per noi?
Sappiamo che con la pandemia la politica per molti versi ha subito una grande caduta. La paura e l’isolamento crescente hanno avuto su di essa forti risvolti, soprattutto inizialmente. La demagogia populista ha trovato qui il suo terreno più fertile, lasciando spesso e volentieri la volontà disinteressata di fare il bene del paese a inaridire.
Quello di far leva su sentimenti di frustrazione e rancore è un leitmotiv del mondo politico, ma in un momento in cui la coesione sociale e la capacità di approvare misure condivise diventa una necessità vitale, un tale atteggiamento si configura come in netta antinomia con lo stesso motivo d’esistenza del contratto sociale. Ma a prescindere dalla pandemia, possiamo lecitamente domandarci se la nostra democrazia non stia forse tradendo se stessa, se noi come cittadini non stiamo tradendo il nostro primario ruolo di fautori della politica aderendo e seguendo le demagogie populiste di figure politiche gettate in pasto ai loro follower.
Se le idee pluralmente partorite vengono soppresse da un’unica seducente e autoriferita voce, allora quello che è in atto non è un processo politico, ma una velata imposizione di dogmi.
Se la politica è anche la capacità di immaginare, e non solo di predire il futuro, come potrebbe prescindere dai cittadini che quel futuro vivranno?
In un momento storico in cui la politica dovrebbe rivendicare quel ruolo egemone, che per decenni ha ceduto a un frenetico laissez-faire che ha privilegiato la crescita indiscriminata del profitto a scapito delle persone, è necessario che noi, come individui che formano la nostra stessa comunità, ricomprendiamo la nostra essenzialità. In un momento, comparabile solo alla grande ricostruzione seguita al secondo conflitto mondiale, siamo portati a prendere decisioni che determineranno completamente il domani di cui saremo protagonisti.
La Arendt ci invita a ritrovare quel terreno di discussione che ci sottragga al destino di esserne spettatori passivi.
Insomma la politica dovrebbe ricordarsi che la sua esistenza dipende tout court dall’insieme dei cittadini a cui presta servizio e allo stesso tempo i cittadini dovrebbero ricordarsi della loro essenzialità sullo spazio politico. La politica non può che procedere dal basso, ed è solo lì che devono essere create idee abbastanza forti da non cadere nella tentazione di piegarsi a poche voci bramose di potere.
Siamo al limite dell’utopia? Forse. Ma dobbiamo fare nostra l’idea di Hannah Arendt nella misura in cui ci costringe a ripensare da capo a quello che configura il nostro vivere in società, la politica, e che ora ha davanti a sé un’occasione inedita per ripensarsi e migliorarsi.
In alcuni casi solo un pensiero radicale può fungere da alternativa critica a un orizzonte che pare l’unico possibile.