Quest’anno ricorrono i 700 anni dalla morte del sommo poeta e noi di Officina abbiamo deciso di celebrarli dedicandogli un articolo con alcune curiosità.
“Chi fuor li maggior tui?”
Le origini e la famiglia
Questo è la prima domanda che Manente degli Uberti, detto Farinata, rivolge a Dante all’inizio del loro dialogo (Inf. X, 42). Per un fiorentino dell’epoca un cittadino di serie a si riconosce solamente se può vantare antenati di cui qualcuno si ricorda.
Ma chi è veramente Dante?
Cercheremo di tracciare un quadro biografico concentrandoci sull’uomo più che sul poeta.
Innanzitutto il suo vero nome era Durante Alighieri (Dante ne è la contrazione), nasce a Firenze nella seconda metà di maggio del 1265. Del giorno non siamo sicuri, ma dato che Dante asserisce di essere nato sotto il segno dei Gemelli e che Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante riferisce di aver saputo “da un valente uomo chiamato ser Piero di messer Giardino da Ravenna, il quale fu uno de’ più intimi amici e servidori che Dante avesse in Ravenna”, al quale il poeta sul letto di morte aveva confidato di aver compiuto 56 anni a maggio, almeno sul mese non vi sono dubbi.
Dante era il primogenito di Alighiero degli Alighieri, clan noto anche come Alagheri, un uomo d’affari della classe media, dedito soprattutto ai prestiti di denaro a interesse e ad altri commerci. Alighiero deve essere morto quando Dante era ancora piccolo, è curioso inoltre notare come Dante non ne parli mai nelle proprie opere, sorte che riserva a quasi tutti i membri della famiglia.
Il clan degli Alighieri abitava una casa decorosa ma modesta nel sestiere di san Pier Maggiore, lo stesso dei Donati, di fronte alla chiesa di San Martino del Vescovo. Ma della madre di Dante che sappiamo? Quasi nulla se non che si chiamava Bella e probabilmente apparteneva alla potente famiglia degli Abati. Morì poco dopo la nascita di Dante o dandolo alla luce. Alighiero, che aveva già più di quarant’anni, fece in tempo a risposarsi con Lapa Cialuffi ed ebbe altri figli: Francesco, Tana (Gaetana) e un’altra figlia della quale si ignora il nome.
Degli studi di Dante, come purtroppo di molti “dettagli” della sua vita, sappiamo poco: ebbe una formazione scolastica di base come tutti i fanciulli dell’epoca, imparò il latino e le arti liberali. Verso i 25 anni si accosta alle opere filosofiche di Boezio e di Cicerone, rendendosi conto che il latino imparato da ragazzo era insufficiente a comprenderle. Brunetto Latini gli insegnò i segreti dell’ars dictaminis ed ebbe con buona certezza anche un soggiorno di studi a Bologna.
Controversa è anche la data del matrimonio di Dante, dato che i dati dell’instrumentum dotis della moglie pongono non pochi problemi. È plausibile, come conclude anche Alessandro Barbero nel suo libro “Dante”, che il matrimonio sia avvenuto circa a metà degli anni Novanta del XIII secolo. La moglie di Dante era Gemma Donati, figlia di ser Manetto e cugina di Forese, Piccarda e Corso. La dote di Gemma ammontava a 200 fiorini piccoli, una cifra modesta. Più che una dote cospicua la sposa portava alla famiglia Alighieri, di condizione assolutamente inferiore, un nome prestigioso. Dal matrimonio con Gemma nacquero quattro figli: Jacopo, Pietro, Antonia e Giovanni. I primi due furono tra i primi commentatori della Commedia, Antonia divenne suor Beatrice nel monastero delle Olivetane di Ravenna, mentre del quarto si sa talmente poco che ne è stata messa in dubbio l’esistenza.
Dante e il suo tempo
“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!”
Probabilmente una delle più celebri terzine con cui Dante descrive la situazione dell’Italia del suo tempo nel sesto canto del Purgatorio: dopo aver speso fiumi di parole sulla Chiesa e sull’Imperatore, ecco che il poeta si concentra sull’Italia tutta definendola nave senza nocchiere e bordello, cioè senza un sovrano che se ne occupi e non più signora di province come lo era stato l’Impero Romano, ma ormai prostituta.
Questa è l’immagine che descrive accuratamente la situazione nella penisola, ovviamente edulcorata dal pensiero del poeta e dalla sua esperienza. È noto l’esilio inflittogli dalla sua Fiorenza e quanto sia stato duro calle lo scender e ‘l salir per l’altrui scale.
Facendo un piccolo passo indietro, cosa voleva dire vivere a Firenze al tempo di Dante?
Sicuramente Firenze non era la città rinascimentale con le meraviglie che l’hanno resa celebre in tutto il mondo. Era una città medievale, corrotta dalla lotta politica. Ci saranno state le macerie delle torri cadute, cantieri e impalcature di case in costruzione. E i capovolgimenti di governo con le conseguenti confische immobiliari erano all’ordine del giorno.
Quindi immaginiamo Dante che passeggia in una città così descritta e che si dirige verso casa – dalle parti di San Martino del Vescovo-. Sarà stata una bellissima casa con librerie da tutte le parti? No, e molto difficilmente in casa aveva uno spazio tutto personale per scrivere e leggere.
Essere cittadino fiorentino voleva anche dire andare in guerra quando necessario. Infatti Dante partecipa alla battaglia di Campaldino, lo scontro avvenuto l’11 giugno 1289 tra i guelfi fiorentini e i ghibellini aretini.
Dante, nel corso di questa battaglia, faceva parte dei feditori, cioè coloro che stavano in prima fila e avevano il compito di urtarsi per primi con il nemico. Un compito decisamente non facile ed egli stesso ammise di aver avuto una gran paura; lo ammette e sottolinea quando fosse normale voler scappare, come hanno fatto diversi cavalieri visti dai suoi stessi occhi. Effettivamente, i cavalieri più esperti da sempre insegnavano ai giovani che in guerra bisogna saper scappare e che non era affatto vergognoso aver paura.
A Firenze vigeva una forte divisione tra i sessi: le donne rimanevano fra donne nelle occasioni speciali e gli uomini lo stesso. Le bambine, giunte in età da marito, non potevano più uscire di casa, ma prima, durante le varie festività, potevano rimanere insieme a tutti gli altri bambini. Ed effettivamente le occasioni per vedersi erano limitate e preziose; Dante vide per la prima volta Beatrice in una di queste feste ed è probabile che non l’avesse più rivista per anni.
Altre occasioni per incontrarsi erano i funerali, in cui, però, l’usanza prevedeva che fossero le donne a entrare nella stanza del morto e a compiangerlo. Infatti, quando Dante si reca alla casa di Folco Portinari, il padre di Beatrice, a causa della morte dello stesso, inizia a piangere e alcune donne lo rimproverano ricordandogli che sia compito loro piangere il morto, in quanto donne, e non il suo.
Articolo scritto a quattro mani da Alessandra Tiesi e Giona Colombo