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Curiosità su Dante – parte seconda

Conosciamo meglio il sommo poeta

Seconda parte dell’articolo su Dante per celebrare i 700 anni dalla sua morte.

“Li cittadin della città partita”

La politica nella Firenze di Dante

La città “partita” ovvero divisa in partiti, in fazioni, così Dante chiama Firenze nel canto VI dell’Inferno. Firenze, allora conosciuta come Fiorenza, era un centro paragonabile oggi a città come Bruxelles o New York. Era la capitale degli affari e le sue banche prestavano soldi a molti stati europei. Un centro fondamentale per l’economia e la politica italiana.

Era una città di tradizione guelfa. Il suo governo era un governo di popolo, cioè di gente che lavorava ma era iscritta alle corporazioni, che eleggevano le magistrature più importanti come i priori, che restavano in carica due mesi. C’erano molte assemblee e consigli, perciò votazioni, riunioni, delibere.

La violenza per motivi politici era però diffusissima: se un provvedimento di qualsiasi natura non risultava gradito, si faceva presto a scendere in strada e a sguainare le spade. Chi lo faceva più spesso erano i cosiddetti “magnati”, i ricconi, i cavalieri che non avevano bisogno di lavorare ed erano esclusi dal governo di popolo. Per motivi di sicurezza durante i due mesi di mandato i priori dovevano restare rinchiusi nella torre della Castagna, nei pressi della casa degli Alighieri.

Ai tempi di Dante era in costruzione una vera e propria fortezza per ospitarli, il Palazzo dei priori, che diventerà poi Palazzo Vecchio. Dante sceglie di buttarsi a capofitto nella complessissima politica fiorentina.

Guelfi neri e guelfi bianchi

La situazione è talmente complicata che anche il partito di governo, quello guelfo, era diviso in due fazioni: bianchi e neri. I primi fanno riferimento alla ricchissima famiglia dei Cerchi (banchieri non nobili), i secondi a quella dei Donati (più nobili che ricchi). Dante ha una posizione peculiare perché rimane parente dei Donati tramite la moglie, ma politicamente è affiliato ai guelfi bianchi. La rivalità fra le due famiglie andava coinvolgendo sempre più persone, anche tra i governanti.

Il governo del popolo faticava a reggere fra gli interessi così diversi che andavano assumendo i suoi membri. Dante è un uomo in cui il partito ha fiducia, parla spesso nelle varie assemblee di cui fa parte, e sempre per appoggiare le mozioni dei bianchi. Il suo primo intervento di cui siamo a conoscenza è quello che appoggia un allargamento del potere in favore dei magnati, a patto che accettino di iscriversi a una corporazione.

Dalla sconfitta dei bianchi…

Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento il governo bianco sembra forte, ma da Roma gli interessi del papa Bonifacio VIII appoggiano la parte nera. Bonifacio manda a Firenze nel giugno del 1300 un suo legato, il cardinale Matteo d’Acquasparta, con l’incarico ufficiale di mettere pace fra le due fazioni.

Dante in quel momento fa parte dei priori che devono governare la città dal 15 giugno al 15 di agosto, l’aria è quantomeno scottante. I magnati sperano che le lotte civili possano portare al colpo di stato e le provocazioni non si contano. I priori, che sono sia neri sia bianchi, nel tentativo di contenere la situazione e per mostrarsi equanimi, deliberano di mandare in esilio i capi di entrambe le loro fazioni, tra loro c’è il migliore amico di Dante, Guido Cavalcanti.  Ma il bando per i bianchi sarà presto revocato e il cardinale, offeso per un tentativo di attentato nei suoi confronti, lascia la città.

L’anno dopo a novembre, mentre Dante è trattenuto in ambasceria a Roma per cercare di contenere le mire di Bonifacio VIII, Carlo di Valois, d’accordo col papa e con i neri, entra in Firenze e ha inizio il colpo di stato dei neri. Per cinque giorni i bianchi che sono rimasti vengono massacrati e i loro beni rubati o distrutti. Poco dopo iniziano i processi politici ai vinti, i cui esiti sono scontati: o si paga una multa salatissima o si subisce la confisca dei beni e il bando. Dante viene accusato di baratteria, cioè di concussione, ma al processo non si presenterà mai. Il 10 gennaio 1302 il podestà Cante de Gabrielli emette una nuova sentenza contro quindici imputati, fra i quali Dante.

… All’esilio di Dante

Scrive Marco Santagata: “erano già stati tutti condannati a pene pecuniarie e al confino, ma adesso per loro scatta la pena di morte sul rogo, e questo perché non si erano presentati a discolparsi. Per tutti l’accusa è la stessa: baratteria e lucri illeciti. È una sentenza breve e poco argomentata, ha il sapore di una rappresaglia.[…] I Neri, dunque, dall’epurazione sono passati alla vendetta”.

Dopo l’infelice esperienza con gli altri esuli bianchi nel tentativo di rientrare a Firenze, Dante non si farà più illusioni e non rientrerà mai più nella sua città, nemmeno da morto.

Il carattere di Dante

“Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e l’salir per l’altrui scale”

Solitamente, dopo aver studiato sommariamente la biografia dantesca, si procede nell’analisi delle sue terzine e di tutte quelle rime magistralmente costruite. Tuttavia, ciò a cui non sempre si dà peso è a come dovesse essere il suo carattere.

Proviamo a immaginare un uomo, Dante, costretto a fuggire dalla propria città, posto in cui era cresciuto ed era cresciuta la sua fama poetica, recarsi da tutt’altra parte, chiedere ospitalità e poi, una volta sistemato, dover ripartire. E così per diversi anni, fino alla morte sopraggiunta nel 1321.

Sicuramente il carattere si indurisce e la speranza di poter tornare alla terra natia (né mai più toccherò le sacre sponde, come dirà qualcuno circa cinque secoli dopo) si affievolisce fino a sparire.

L’esilio significava questo: essere banditi perdendo ogni diritto di cittadinanza e ogni protezione, nonché poter essere perseguitati e uccisi da chiunque. Dante aveva a lungo sperato che il suo poema gli meritasse la grazia e gli consentisse di tornare a casa; non fu così e a Firenze non fece più ritorno.

In base a quanto detto, si può ipotizzare che il suo carattere non dovesse essere dei più facili.

La superbia…

Come non ricordare, in ultima analisi, la superbia di Dante:

“…Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti”

Dante sa di non essere condannato all’Inferno e lo fa dire a Caronte nel III canto dell’Inferno: il lieve legno è infatti la navicella dell’Angelo Nocchiero, il traghettatore delle anime destinate a purificarsi in Purgatorio. Il poeta sa che finirà tra i superbi del Purgatorio e in quella cornice sente il peso del masso trasportato dalle anime ed è anche l’unico canto della cantica in cui la pena viene descritta con maggior ricchezza di dettagli.

Altri accenni si trovano nel IV canto dell’Inferno e nell’XI del Purgatorio, rispettivamente: “[…] sì ch’io fui sesto tra cotanto senno” e “[…] forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido”. Nel primo caso egli è seduto accanto ai grandi autori classici del passato (Omero, Ovidio, Lucano e, ovviamente, Virgilio) ed è la continuazione di cotanto senno. Nel secondo caso, sebbene non venga ammesso esplicitamente, si intende che sarà lui che caccerà i due Guidi (Cavalcanti e Guinizzelli) dalla loro posizione poetica.

Articolo scritto a quattro mani da Giona Colombo e Alessandra Tiesi