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Divieto di scelta: battaglie “pro-vita” d’oltreoceano

Nell'ultimo anno gli USA sono stati scenario di numerose normative e leggi che vietano o limitano fortemente la possibilità per le donne di abortire. Ma non è una mera e improvvisa presa di posizione etica. Si tratta di una strategia ben costruita, che ha un solo obiettivo: combattere ogni possibilità di interrompere legalmente una gravidanza.

Manifestanti contro l'aborto fuori dalla sede di Planned Parenthood Columbia Health Center. Si tratta di centri che forniscono assistenza e cure mediche legate a sessualità e riproduzione.

Il 22 gennaio 1973 alla Corte Suprema degli Stati Uniti viene emessa una sentenza destinata a fare la storia. Il caso “Roe contro Wade” permette ai giudici di riconoscere il diritto all’aborto, sulla base del quattordicesimo emendamento. Una decisione storica che ha influito sulla legislazione di 46 Stati e definito per la prima volta una legge federale sul tema. Capire cosa sia la Roe vs Wade significa conoscere il grande nemico di una fetta piuttosto consistente della popolazione statunitense: la lobby anti-abortista. Così, nel 2019, la crociata “pro-vita” continua con meccanismi nuovi, diversi, e con uno spiraglio lasciato aperto dal presidente in carica.

Divieti, restrizioni e “heartbeat bill”

Nei primi mesi del 2019 erano già quattro gli Stati che hanno adottato leggi di divieto dell’interruzione volontaria di gravidanza, nel caso fossero trascorse più di sei settimane dal concepimento. Kentucky, Mississippi, Ohio e Georgia hanno approvato i cosiddetti “heartbeat bill”: le sei settimane indicano il momento in cui si ha un primo battito cardiaco (anche se l’embrione non ha ancora sviluppato un vero e proprio organo cardiaco). Si tratta di leggi che non sono ancora state applicate, e che in alcuni casi hanno già incontrato la contestazione dei tribunali: Ohio e Mississipi dovranno risponderne davanti a una corte giudiziaria, mentre la legge del Kentucky è stata bloccata da un giudice federale. Gli ostacoli non si traducono però in blocchi effettivi: le “leggi sul battito del cuore” esistono già in Iowa e North Dakota dal 2013, mentre aumentano le proposte simili in altri stati: Tennessee, Texas, Maryland, Illinois, Florida, South Carolina, Minnesota, West Virginia e persino New York. La heartbeat bill viene anche soprannominata “divieto mascherato”, ed è fortemente criticata dai gruppi che appoggiano la libera scelta delle donne. Sei settimane, infatti, non sono spesso nemmeno sufficienti perché una donna si renda conto di essere incinta, oltre a non permettere di riscontrare malformazioni o situazioni di pericolo per la propria salute.
L’esplosione mediatica arriva però di colpo, a maggio del 2019, e ha inizio con il caso dell’Alabama, divenuto quasi un simbolo del dibattito recente sull’aborto. Il 15 maggio il Senato approva un disegno di legge che non solo vieta l’aborto in tutto lo Stato, ma non prevede eccezioni in caso di stupro o incesto. Il giorno dopo il Missouri vieta l’interruzione di gravidanza dopo le otto settimane. Il 21 maggio in Louisiana viene approvato un emendamento che rende l’aborto incostituzionale, da sottoporre alla Camera e poi a referendum in estate. Strano ma vero, in questo caso la legge è stata proposta da una deputata democratica.

Il grande “mostro” immaginario: i dati sugli aborti

L’ideologia anti-abortista dipinge la procedura come una tendenza in crescita, un rifiuto della maternità da parte di donne che cercano un’emancipazione quasi illecita. I dati però raccontano una storia diversa. Secondo i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, nel decennio che precede il 2015 le interruzioni di gravidanza sono diminuite del 26%. La diminuzione è da attribuire a una maggiore disponibilità dei contraccettivi a breve e lungo termine. Gran parte di questo miglioramento è dato dalla riforma sanitaria voluta da Barack Obama, il cosiddetto “Obamacare”. Non solo non si tratta di una tendenza, ma nemmeno di una scelta tra essere o non essere madri: il Guttmacher Institute si occupa di politiche sull’aborto negli USA e riporta che il 59% delle persone che hanno abortito nel 2014 erano già madri di almeno un figlio.

Nei diversi movimenti “pro-vita” hanno un grande peso specifico le chiese cattoliche ed evangeliche, fondando la propria retorica sull’idea dell’aborto come omicidio e azione innaturale contro la religione e la divinità. Le donne che ricorrono a queste pratiche sono agli occhi di molti attivisti pro-life convinte femministe liberaliste e anti-religiose. Anche in questo caso i dati contraddicono lo stereotipo: la maggior parte delle persone che hanno interrotto una gravidanza nel 2014 si identifica come religiosa. Inoltre, uno studio pubblicato dall’American Journal of Public Health smentisce l’idea diffusa che le donne rinuncino alla maternità perché affermate in ambito lavorativo e intenzionate a solidificare la carriera “a discapito” della famiglia. Secondo questo studio, infatti, 3 donne su 4 sono già in difficoltà economica nel momento in cui chiedono un’interruzione di gravidanza. Le donne cui la procedura viene negata sono a maggiore rischio di povertà, mentre molte decidono di dare il bambino in adozione, non essendo in grado di affrontare le spese che ne conseguono.
Si tratta quindi di una battaglia che mira a un nemico immaginario, un insieme di concezioni basate su un allarmismo infondato, con l’obiettivo di spaventare e creare un fronte unito contro la libera scelta. I risultati sono consensi sempre crescenti, disegni di legge in aumento e un fine comune: ribaltare e sostituire la Roe vs. Wade.

Il pro-life nell’era Trump e la nuova Corte Suprema

Come si è detto, molte di queste leggi hanno già incontrato la resistenza di giudici federali o di singole corti giudiziarie. Ed è proprio questo lo scopo di esse, nella maggior parte dei casi. Attirare un’attenzione mediatica e giudiziaria significa costruire le basi per portare la questione di fronte alla Corte Suprema. Ma perché porsi questo obiettivo dopo anni in cui la strategia si “limitava” ad ostacolare la procedura medica? Cosa ha permesso l’introduzione così radicale di normative di divieto e l’audacia di voler raggiungere la Corte Suprema? Si potrebbe rispondere con due parole: Donald Trump. Già dal 2016, con l’elezione di un presidente non distante dalle posizioni anti-abortistiche, le associazioni pro-life hanno investito in donazioni a legislatori repubblicani, dimostrando il pieno appoggio alla nuova conformazione della Casa Bianca.

Nel 2018 alla Corte Suprema il presidente ha nominato giudici Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch, due conservatori con posizioni molto rigide sull’aborto. Questa scelta si traduce in uno spostamento a destra nelle sentenze della Corte dei prossimi anni, ed è questo che spinge i movimenti anti-scelta a portare la propria battaglia sempre più in alto. Non si tratta di un disegno occulto, in quanto molti legislatori hanno esplicitato il proprio piano: creare un precedente penale che scavalchi la Roe vs. Wade e porti all’illegalità a livello federale dell’aborto. Molti sono consapevoli della difficoltà di un progetto simile, e puntano piuttosto a un’indipendenza dei singoli stati sul tema. Questo porterebbe all’effettivo divieto dell’aborto Stato per Stato piuttosto che a livello nazionale, almeno laddove sia presente un governo a maggioranza repubblicana.

Il contrattacco democratico

Se da un lato l’ondata anti-scelta sembra prendere piede sempre di più, molti stati a maggioranza democratica si muovono per garantire la protezione della libertà di scelta per le donne. Il Vermont ha approvato una proposta per emendare la Costituzione e rendere l’aborto legale a livello statale. Nel Maine la Camera ha introdotto una norma per estendere la possibilità di eseguire interruzioni di gravidanza a diverse professioni sanitarie, mentre a New York si procede con il Reproductive Health Act, una legge a protezione degli aborti tardivi che rimuove l’aborto dal codice penale. Seguono procedimenti simili in Nevada, Virginia e Oregon. In generale, l’idea è quella di prepararsi a qualsiasi evenienza: se i repubblicani dovessero invalidare la Roe vs. Wade sarebbe compito dei singoli Stati e delle singole costituzioni tutelare la salute e la stabilità di chi sceglie di interrompere una gravidanza. Questo però rimane possibile all’interno degli Stati decisi a non introdurre norme restrittive e di divieto, mentre nulla è certo per quanto riguarda quelli a maggioranza repubblicana. L’annullamento della legge federale eliminerebbe i blocchi giudiziari che impediscono alle norme restrittive di essere messe in pratica. Laddove i democratici non hanno voce in capitolo è difficile parlare di garanzie.

L’opinione pubblica e l’impatto globale

Con il caso dell’Alabama, l’opinione pubblica si è fatta sentire, per la maggior parte in difesa della libertà di scelta. Molte star di Hollywood e diversi cittadini statunitensi hanno adottato l’hashtag #YouKnowMe. Così sui social sono state raccontate migliaia di storie di donne che hanno interrotto una gravidanza, con le ragioni che le hanno spinte a tale scelta e diversi inviti alla riflessione. Con il passare delle settimane, però, l’ondata social è passata in sordina, e i contenuti virali si limitano a meme e battute. Un altro caso mediatico simile a quello della crisi dell’acqua di Flint, che aveva riscosso grande successo su internet, ma che si è spento dopo qualche settimana.

Mentre l’attenzione del pubblico si sposta velocemente ad altri temi, non si può ignorare l’impatto che le dinamiche statunitensi possono avere sul resto del mondo. In un contesto in cui sembra ci sia un allineamento dei partiti e dei leader conservatori a livello globale, questioni etiche come aborto o eutanasia sono difficili da discutere limitandosi ai confini di una sola nazione. Un precedente penale in grado di sostituite la Roe vs. Wade costituirebbe a livello globale un precedente legislativo valido per qualsiasi leader conservatore, incluso il Ministro degli Interni italiano. Così sarebbe possibile non solo giustificare, ma anche spingersi a legalizzare situazioni di difficile accessibilità alla procedura abortistica. Se il “Paese più democratico del mondo” si schiera contro l’aborto, la maggioranza di obiettori di coscienza tra i ginecologi italiani (attualmente il 68,4%) non sarebbe poi tanto sorprendente, anzi, potrebbe aumentare. Un discorso ancora più preoccupante quando la limitazione delle libertà incontra l’appoggio del governo.