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è Stato Mafia

È il 20 aprile 2018, primo pomeriggio, quando nel Tribunale della Corte d’Assise di Palermo arriva la condanna per alcuni uomini delle istituzioni e alcuni mafiosi per la trattativa Stato-mafia.

In aula, il pm Nino Di Matteo parla  di una  “sentenza storica”.

Dice: “Ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu. La Corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel ’92 e nel ’93, qualche esponente dello Stato trattava con Cosa Nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa Nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi.
Contesto criminale e, purtroppo, istituzionale e politico. Ci sono spunti per proseguire le indagini su quella stagione“.

Mi scuserete la citazione diretta, ma quelle del pm Di Matteo sono parole forti, che devono risuonare in tutti i tribunali, in ogni scuola, in ogni università, in tutto il Paese.

È stata riaffermata la legalità.

Il pm Di Matteo

Dopo cinque anni di processo, cinque giorni di Camera di Consiglio, oltre 200 udienze e testimoni, finalmente è arrivata la sentenza di condanna per due boss mafiosi, tre alti ufficiali dei carabinieri e un esponente di Forza Italia:

Marcello Dell’Utri, ex senatore e fondatore di Forza Italia: dodici anni di reclusione;

Antonio Subranni e Mario Mori, ex vertici del Ros: dodici anni di reclusione;

Antonio Cinà, ex medico del capo dei capi Totò Riina: dodici anni di reclusione;

Giuseppe De Donno,ex capitano dei Carabinieri:  otto anni di reclusione;

Leoluca Bagarella, boss mafioso, cognato di Riina: ventotto anni di reclusione.

Tutti gli imputati sono stati condannati al pagamento dei danni alla parte civile (il Consiglio dei Ministri), per una somma complessiva di 10 milioni, e delle spese processuali e sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici.

Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.

Cadute nel nulla le accuse di falsa testimonianza rivolte a Nicola Mancino, assolto.

I colpevoli sono stati condannati ai sensi dell’articolo 338 del codice penale, ovvero per il reato di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. In sostanza questi ”signori” hanno intimidito i governi di allora con la minaccia di ulteriori bombe e stragi finché non fosse cessata l’offensiva antimafia messa in atto dagli esecutivi. I fatti si collocano tra il 1992 e 1994, anni immediatamente successivi alle stragi di mafia di Capaci e via D’Amelio, di Firenze, Milano e Roma, anni d’instabilità politica: in soli due anni si sono succeduti i Governi Amato, Ciampi e Berlusconi.

Da questa minaccia agli organi statali, è nata la trattativa che ha portato lo Stato, per mezzo dei suoi stessi uomini, a piegarsi alla volontà di un ordinamento illegale e illegittimo, alla volontà di quella serpe in seno che il nostro paese ha e di cui non riesce a liberarsi.

L’obiettivo di Cosa nostra era un’attenuazione delle misure previste dall’articolo 41 bis, il cosiddetto carcere duro; in cambio avrebbe concesso la fine della stagione stragista.

Tutto nasce nel 1992, quando la Cassazione conferma la sentenza del Maxiprocesso di condanna per i boss mafiosi (tra cui Riina) e la Commissione Regionale, organo direttivo di Cosa Nostra, dà inizio alla stagione stragista, programma già nel 1991. Dopo la strage di Capaci, nel maggio del ’92, in cui perse la vita Giovanni Falcone, il Consiglio dei Ministri approva con un decreto-legge l’introduzione del carcere duro. Nello stesso periodo, il Capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donno contatta Vito Ciancimino, mafioso ed ex sindaco di Palermo appartenente alla DC,  per conto di Mario Mori, all’epoca vicecomandante del ROS, che informa il Generale Subranni di questa nuova collaborazione; a sua volta Ciancimino contatta  Salvatore Riina attraverso Antonino Cinà, mafioso medico del capo dei capi.

Piano piano tutti pezzi del puzzle s’intrecciano.

Alla fine del giugno 1992 il capitano De Donno incontra a Roma la dottoressa Liliana Ferraro, vice direttore degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia, alla quale chiede copertura politica per il rapporto di collaborazione con Ciancimino; la dottoressa Ferraro, inoltre, lo invita a riferire al giudice Paolo Borsellino.

A luglio, il giudice antimafia incontra a Roma il Ministro dell’Interno Nicola Mancino, da poco nominato dal governo Amato I; è lo stesso Borsellino che, tornato dal colloquio, ammette alla moglie l’esistenza della trattativa stato-mafia e di essere consapevole che è proprio lui l’ultimo muro da abbattere affinché questa trattativa raggiunga il culmine.

La consapevolezza di chi sa di aver dato la vita per la vittoria dello Stato sulla mafia ma vede, attorno a sé,  quelli che dovrebbero essere i suoi alleati piegarsi senza onore.

Pochi giorni dopo, in via D’Amelio il magistrato e la sua scorta diventano vittime di mafia.

Una foto della strage di via d’Amelio

La risposta dello Stato è immediata: il decreto del 41-bis è convertito in legge e oltre 100 mafiosi detenuti particolarmente pericolosi vengono trasferiti in blocco nelle carceri dell’Asinara e di Pianosa e sottoposti al regime del 41 bis, applicato pure ad altri 400 mafiosi detenuti.

Nel  marzo 1993 il dottor Nicolò Amato (all’epoca direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria)  invia al Ministro di Grazia e Giustizia Conso una lunga nota in cui esprime la sua linea di abbandono totale dell’articolo 41 bis per ripiegare su altri strumenti penitenziari di lotta alla mafia. Poco dopo alcuni sedicenti familiari di detenuti mafiosi dell’Asinara e di Pianosa inviano una lettera minacciosa al Presidente della Repubblica Scalfaro e, per conoscenza, al Papa, al Presidente del Consiglio Giuliano Amato e a ministri Mancino e Conso, chiedendo la rimozione del 41-bis.

Un fatto gravissimo: le famiglie mafiose intimano il Capo dello Stato; è un segnale di sfida, davanti a cui il Presidente della Repubblica è rimasto estremamente fermo e distaccato, senza mai aprire ad attenuazioni del regime del carcere duro.

Da qui si susseguirono le stragi a Firenze, a Milano e a Roma.

E in tutto questo, come se non fosse già sufficientemente coinvolta, la politica estende il suo braccio in una delle pagine più buie del nostro Paese.

Molti collaboratori di giustizia, mafiosi pentiti, denunciano il fatto che boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, offrivano appoggio a Forza Italia per ottenere benefici giudiziari e la revisione del 41 bis in cambio dell’appoggio elettorale, tentando di trovare canali per arrivare a Marcello Dell’Utri e a Berlusconi. Secondo il pm Di Matteo, è proprio Dell’Utri ad aver fatto da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso, diretto al co-fondatore di Forza Italia e futuro premier, Silvio Berlusconi.

Marcello Dell’Utri

Questa è solo la punta dell’iceberg, tutto quello che c’è sotto, è sparito tra la polvere delle bombe di quegli anni insanguinati. Molto è stato fatto, ma molto c’è da fare.

Bisogna essere consapevoli che questa sentenza è una pietra miliare della lotta alla mafia.

In quegli anni lo Stato era in guerra; oggi le cose sono diverse, la mafia si muove in altri modi, ha abbandonato le bombe, ma non ha smesso di crescere in seno allo Stato.

C’è ancora molto da combattere, ed è ora di farlo. Finché c’è qualcuno che riesce a difendere lo stato di diritto e la legalità, c’è speranza.

Lo Stato può vincere nella sua lotta alla mafia. E questa sentenza deve essere un punto di partenza, non di arrivo.