Officina Magazine
Magazine online d'attualità e opinioni

Frida e Freeda sono brave femministe. O forse no

Icone ormai consolidate del femminismo contemporaneo, siamo davvero certi che che il loro sia un modello positivo per il movimento?

Da un lato la celebre pittrice messicana scomparsa a metà degli anni ’50, dall’altro una delle pagine ad oggi più popolari sui nostri social.

In entrambi i casi, due nomi che con sempre maggiore facilità e immediatezza richiamano alla mente di chi li sente pronunciare la realtà femminista.

Un accostamento che se nel primo caso è nato a posteriori e in maniera totalmente involontaria da parte della diretta interessata, nel secondo è stato ampiamente voluto e ricercato.

Perché, diciamocelo, attribuirsi certe etichette a volte ha il semplice e mero scopo di attirare le simpatie di un pubblico ingenuo, anche se in buona fede, per quanto concerne temi delicati e fondamentali come, per esempio, la parità di genere.

Frida Kahlo femminista?

Non si può negare, Frida fu indubbiamente più libera della maggior parte delle donne del suo tempo.

Attiva a livello politico, nel 1928 si iscrisse al Partito Comunista Messicano di cui fu sempre una strenua sostenitrice tanto che amava affermare di essere nata nel 1910, e non nel 1907, poiché si trattava dell’anno in cui ebbe luogo la rivoluzione che trasformò radicalmente il Messico e di cui lei stessa si sentiva figlia.

Visse la sua sessualità in maniera libera e aperta, avendo relazioni sia eterosessuali sia omosessuali, di cui le più celebri rimangono quella con Diego Rivera, che sposò nel 1929, e con il politico russo Lev Trockij, uno dei tanti amanti da lei avuti nel corso del suo tormentato matrimonio con il muralista messicano.

Propose un’arte strettamente legata alle sue travagliate vicende personali, dal terribile incidente che subì a 18 anni, al successivo aborto spontaneo fino ai numerosi tradimenti del marito.

E forse proprio questi aspetti hanno reso il mio rapporto con Frida così problematico e il mio giudizio su di lei così critico: il fatto che la sua arte venga esaltata quasi unicamente in ragione di questo vissuto straziante e doloroso, costantemente celebrato come la più alta forma di abnegazione personale, interprete e specchio unico ed esclusivo del mondo femminile.

Se ci accostassimo a Frida considerando unicamente le sue opere e non le sue vicende personali (operazione che, in realtà, andrebbe compiuta ogni volta che valutiamo l’operato di un artista) quanto rimarrebbe della sua fama?

Quando parliamo di Frida Kahlo come di un’icona femminista, lo facciamo perché crediamo davvero che lei incarni e abbia lottato per quel concetto che sta alla base del femminismo ovvero la parità politica, sociale ed economica dei sessi?

A tale proposito, basterà ricordare che Frida non fu mai una donna economicamente indipendente e che per lungo tempo visse all’ombra artistica del più celebre Diego Rivera. La riscoperta della sua arte è avvenuta solo in tempi recenti.

Senza dimenticare di menzionare l’amore per questo uomo che si trasformò presto in una vera e propria ossessione in grado di imprigionarla e condizionarla per tutta la vita.

A fronte di tutto ciò, Frida può prima di tutto essere definita lei stessa una femminista e poi, solo in un secondo momento, un’icona del femminismo? A mio parere no.

Anche se forse decisamente più preoccupante è la glorificazione di cui sono stati fatti oggetto recentemente i suoi travagli personali.

Freeda, quando il femminismo si fa social

Facendo riferimento a Freeda, credo che la maggior parte di chi legge sia immediatamente rimandata a quel progetto editoriale “femminista” (a breve la spiegazione delle virgolette) caso mediatico del 2017.

Presente unicamente su Facebook e Instagram, tale pagina ha avuto una crescita esponenziale in brevissimo tempo. Essendo io in possesso esclusivamente di un account Instagram (dove, ad oggi, Freeda conta 1,4 milioni di follower), tutte le seguenti considerazioni saranno basate sull’esperienza da me avuta nel seguire questa pagina negli ultimi tempi.

Partiamo dal nome, Freeda. Esso vuole essere il femminile dell’inglese freedom, libertà, ma pare chiaro che foneticamente riprenda il nome di Frida Kahlo, assurta negli ultimi tempi, come abbiamo detto, a nuovo idolo femminista circondato da un’aura color rosa che grida girl power da tutti i pori.

Aprendo la pagina Instagram di Freeda, ci accoglie la seguente frase presente in bio “Dietro ogni grande donna ci sono altre grandi donne. Sono loro che leggono i messaggi prima dell’invio”.

Tralasciando la descrizione di un’azione alquanto frivola e illudendoci del fatto che il ricevente di questo fantomatico messaggio non sia esclusivamente un essere maschile, già dalle prime battute Freeda implicitamente ci rivela a quale pubblico si rivolga: quello femminile.

Fatto abbastanza limitante e contraddittorio per un progetto che afferma di appartenere al femminismo della quarta ondata, quello più aperto, inclusivo e che ha finalmente chiamato nella discussione il genere maschile.

Eppure, a casa Freeda sembrano avere le idee decisamente confuse sull’ondata femminista in corso se al tempo stesso affermano di voler essere il punto di riferimento delle donne tra i 18 e i 34 anni. Più precisamente, delle “grandi donne”.

Sì, perché Freeda propone quel femminismo di stampo liberal tipicamente americano nel quale l’emancipazione della donna passa attraverso l’auto-affermazione imprenditoriale e l’epopea individuale. Non stupisce, quindi, che le protagoniste di Freeda siano donne che “ce l’hanno fatta”, meglio se da sole e contro tutto e tutti.

Per quanto concerne l’aspetto comunicativo, Freeda non ha un vero e proprio sito internet perché i suoi contenuti sono pensati per essere fruiti direttamente sui social come instant articles.

Tuttavia, con una media di 8 post al giorno su Instagram, circa i 3/4 di essi sono repost di altre pagine e i contenuti effettivamente originali sviluppati da Freeda sono davvero pochi e quasi sempre sono proprio quelli foraggiati da adv e sponsorizzazioni da parte di terzi.

Non molto meglio le storie che durano 24 ore nelle quali si parla di moda, cinema, celebrità, tanto, e di parità o più in generale di argomenti impegnati, poco.

Per non parlare di quello che si cela dietro Freeda, vale a dire Andrea Scotti Calderini, ex di Publitalia, e Gianluigi Casole, proveniente da Holding Italiana Quattordicesima (di recente rinominata H14), che hanno lanciato questo progetto fondando la società Ag Digital Media a cui in seguito si è aggiunta anche Ginevra Elkann.

Non siamo, perciò, semplicemente di fronte all’ennesimo caso in cui il femminismo viene annacquato e reso in chiave pop per apparire più gradito agli occhi del grande pubblico, con la conseguenza di diventare veicolo di messaggi fuorvianti e poco attinenti alle vere ragioni del movimento. Si tratta di un progetto che solo in apparenza vuole essere da millennials per millennials, ma che in realtà ha alle spalle vecchi dinosauri del capitalismo italiano come Agnelli e Berlusconi.

La loro strategia di marketing consiste nello sfruttare un argomento sensibile come il femminismo per dare modo a quelle imprese con il medesimo target di Freeda (appunto donne tra i 18 e i 34 anni) di entrare direttamente in contatto con tale fetta di pubblico. Le tematiche femministe sono solo un pretesto banalmente pubblicitario.

Le vie del pinkwashing sono infinite e Freeda ne è una delle massime espressioni.