“Sincero come il pane”, cosmopolita, a tratti onirico… “Champs-Élysées a Shibuya” è il romanzo d’esordio della giovanissima Giorgia Giuliano, pugliese d’origine, trapiantata a Milano per lavoro.
Il libro si legge d’un fiato ed è caratterizzato da una scrittura fresca e capace di riflettere i pensieri e le emozioni – tanto intime, quanto universali – dei protagonisti: Gatien, Monique ed Akemi.
Tra delicate metafore e sinestesie, le pagine ci accompagnano nelle vite dei suoi personaggi con una storia che altro non è che un anelito sognate verso una vita semplice e sincera. Il tutto nel solco di un patto segreto tra chi legge e chi scrive. Giorgia, infatti, si affida all’immaginazione del lettore, cui lascia il compito di dar forma al vissuto e ai luoghi (fisici e mentali) dei personaggi.
Noi di Officina Magazine abbiamo voluto scambiare qualche chiacchiera con l’autrice per confrontarci sul suo romanzo e sui suoi progetti.
Giorgia, tu lavori come giornalista e copywriter nel mondo del food. Quanto il tuo lavoro ha influito sulla realizzazione del romanzo?
In realtà il mio lavoro è un po’ una prefazione del percorso editoriale che ho appena cominciato e non soltanto di Champs-Élysées a Shibuya. Mi sono avvicinata anni fa alla cucina giapponese, dovendo recensire alcuni ristoranti. C’è un detto che dice: “più mangi e più hai fame”. Niente di più vero. Ho cominciato a leggere moltissima narrativa giapponese e anche ad apprezzare il cinema nipponico. Da bambina – credo come tutti – restavo incollata al televisore perché c’erano Sailor Moon, Card Captor Sakura e Holly e Benji. Ma se non fosse stato per il mio lavoro, forse non avrei mai maturato un vero interesse per il Giappone. Ogni tanto mi chiedo quale altro avrebbe potuto essere il mio primo libro se non avessi scritto Champs-Élysées a Shibuya che, qualcosina del Giappone, inevitabilmente la introduce.
“Shibuya è uguale a quel momento in cui un impasto incorpora aria. Solo che in uno dei quartieri in assoluto più popolati di Tokyo le bolle sembrano le persone. E sembrano non poter mai scoppiare”.
Come mai hai scelto di ambientare il tuo primo romanzo tra Tokyo e Parigi?
Quello tra Francia e Giappone è un testa a testa ma anche uno spalla a spalla. Le differenze culturali sono abissali, oltre che evidenti. Eppure, nella sua “fase adolescenziale” (come la chiamo io) il Giappone ha mutuato molto dall’Occidente, in particolare dalla Francia: il romanzo naturalista di Zola è stato uno dei primissimi riferimenti per la letteratura giapponese (bungaku), ma lo sono state anche le atmosfere della rivoluzione francese che hanno ispirato uno degli shōjo manga più di successo: Le Rose Di Versailles di Riyoko Ikeda, da cui l’anime Lady Oscar. O anche la moda stessa. Nel sottotesto di Champs-Élysées a Shibuya si assiste ad una sorta di indebolimento dei meccanismi occidentali, soprattutto davanti a un grosso scoglio come la solitudine: a poco a poco, la visione più fanciullesca dei sentimenti (tipica degli occidentali) si rassegna e cede al disincanto. Il romanticismo francese si affievolisce davanti alla fermezza del Giappone, di cui condivido il processo di normalizzazione del dolore.
“Al contrario di Shibuya, la strada parigina est comme un soupir. Rigo dritto tutte le volte che ci passeggio senza accorgermi di arrivare alla fine, mentre panifico idee, nuove forme…”
Nel tuo romanzo, il pane con il suo profumo, con la lievitazione, con il suo impasto funge da protagonista discreto. Vuole essere un tacito invito alla riscoperta della semplicità?
Della sincerità, perché ancora non siamo bravi ad accettarla. Quando la realtà ci appare “acqua e sapone” in tutta la sua schiettezza, non le vogliamo quasi mai appartenere. Evitiamo il faccia a faccia e scegliamo la via dell’edulcorazione: soltanto così potrà risultarci più vivibile. Il pane è un alimento che in un certo senso ci mette alle strette: o utilizzi acqua e farina, oppure quello che ne verrà fuori non sarà mai pane. Non ha ingredienti particolarmente raffinati che lo rendono più buono: qualche aggiunta casomai puoi farla in seguito, per arricchire l’impasto. Il pane in Champs-Élysées a Shibuya è il companatico della fragilità umana. È un cibo oggettivamente privo di illusioni.
“Lo sai, Monique, qual è la cosa più incredibile del pane? La cosa più incredibile del pane è che non dice di no a niente. Dà un’opportunità a qualsiasi cosa tu ci metta dentro o sopra. Tu l’hai mai detto che il pane non ci sta bene con la marmellata o con le uova? E poi anche quando diventa vecchio, il pane è duro… a morire. Sa vendersi bene – puoi farci un ripieno, un gratin per le verdure o un crostino per le zuppe calde. Fa di tutto perché tu non possa dirgli di no. Magnifique!”
Di recente hai deciso di creare un podcast, Giorgianongiulia, che ruba storie ai bambini per restituirle, in chiave attualizzante, agli adulti. Da dove nasce questa idea?
Nasce da un bisogno di leggerezza – che non vuol dire parlare di attualità sminuendo quel che accade – ma svincolarla dalle polemiche. In un certo senso, questo podcast è una specie di passetto: un passaggio che agevola la comprensione di quello che succede e che per di più lo fa in tempi molto brevi, dato che ogni episodio dura all’incirca 5 minuti. Ci sono storie per bambini che combaciano perfettamente con alcune situazioni che stiamo vivendo. Siccome a tutti piacciono le storie e siccome agli italiani iniziano a piacere i podcast, già molto fruiti in America, mi sono detta di volerci provare.
Infine, ci piacerebbe sapere se ci sono progetti per il futuro. Hai in mente un secondo romanzo?
Io dico che se vuoi superare il blocco dello scrittore, allora devi scrivere un libro. Da quando ne ho scritto uno, non mi sono più fermata. Adesso sto scrivendo il terzo, ma spero innanzitutto di vedere pubblicato il secondo. I miei libri parlano di Giappone: credo sia il modo migliore per condividere con i lettori l’interesse per un mondo che sono consapevole resterà sempre un po’ impenetrabile. Ma forse è bello proprio per questo, così almeno posso anche metterci del mio. Diciamo quindi che i libri sono un po’ come il paio di jeans più comodo che ho – quello che di sicuro indosso quando ho bisogno di sentirmi a mio agio. Se non vi piacciono gli spoiler, allora non vorreste sapere che il secondo libro è più o meno collegato al primo: riprende la storia di uno dei personaggi dopo che, una volta finito di leggere Champs-Élysées a Shibuya, mi hanno chiesto: “Ma perché quel personaggio è fatto così? Che gli è successo?”. Non lo avevo previsto, ma la risposta è venuta fuori lunga quanto un libro.