Di questo parla un libro del giurista e scrittore Manfred Ernst, che rivela la storia della cosiddetta “Nave fantasma”, di fatto un relitto della prima guerra mondiale, risalente al 1918 come mezzo per navigare sul fiume Weser. Si tratta della Pailboot III. Le informazioni contenute in questo scritto, riportate dallo Spiegel Online, riguardano l’esistenza di una grande imbarcazione abbandonata a Bremerhaven (località portuale alla foce del fiume Weser) all’interno della quale gli ufficiali nazisti rinchiusero i prigionieri politici avversi al regime insediatosi nel 1933 che faceva capo a Adolf Hitler. Il lugubre nome evidenzia il tragico aspetto rilevante della nave: da essa provenivano grida di uomini torturati.

Il casus Vogel nella Nave fantasma
È proprio sulla tortura che si concentra Ernst, basandosi sulle testimonianze di un uomo deportato, Willy Vogel. Nel 1933 quattro uomini delle squadre d’assalto (SA) del neonato Terzo Reich, chiusi dentro una cabina della nave, si rivolsero direttamente a lui, mettendolo alle strette con domande riguardo la sua fedeltà al partito nazista. Quando ricevettero una risposta negativa, e per di più una conferma sull’adesione al partito comunista, la diretta conseguenza fu la gratuita violenza verbale e fisica che gli ridusse il volto in brandelli, impedendogli così per sempre l’uso della parola. All’età di 26 anni quindi gli agenti deturparono il suo aspetto a tal punto da far piangere anche il carceriere. Condotto poi nelle carceri della polizia ottenne il permesso di coprire il volto per evitare che gli operai notassero le ferite. Nel corso della sua vita lo costrinsero altre due volte a patire le sofferenze della Nave.
La tortura della libertà di espressione
Fu il generale del Terzo Reich Herman Goering, uomo di fiducia di Hitler e neoministro, a ideare il processo segreto di maltrattamento come freno inibitorio alle idee di opposizione. L’obiettivo furono uomini simpatizzanti e impegnati in partiti differenti. Lo stesso copione di Vogel si verificò per questi ultimi. La permanenza sulla Nave fantasma trasformava brutalmente il viso e il corpo dei prigionieri tanto da renderli irriconoscibili, addirittura, alle loro stesse mogli. La disperazione spinse alcuni al suicidio. Una sorte diversa invece aspettava coloro che furono colti dalla morte, sopraggiunta in seguito alle torture subite.

La reazione della popolazione locale
La testimonianza riportata da Ernst vuole sottolineare quanto questo processo fosse risaputo. Eppure la popolazione locale tendeva a insabbiare la vicenda. Ernst registra nelle persone non solo la passività ma anche il fastidio nel trovarsi faccia a faccia con segnali tanto evidenti degli orrori perpetrati nei confronti dei prigionieri. “Le persone che abitavano nella zona portuale addirittura si lamentavano, ma non perché in quella barca c’erano uomini che venivano torturati, ma perché erano turbate dalle urla”.
Come reagirono gli esponenti politici
Nemmeno il partito politico dei socialdemocratici, che pure era chiamato a dimostrare una responsabilità maggiore nell’opposizione al regime, si espresse sull’argomento, ma i suoi membri “se ne stavano rintanati nel loro orticello”. Soltanto un gruppo di persone proseguì nella “resistenza con volantini e giornali clandestini”. Si tratta dei comunisti, che furono di conseguenza anche coloro che subirono le stesse infamie che andavano denunciando riguardo alla Nave fantasma.
Situazione giudiziaria ad oggi
Al termine della Seconda guerra mondiale i cittadini di Bremerhaven sembravano aver dimenticato queste tragedie e ignorare quanto fosse avvenuto sulla Nave. Gli americani in seguito svelarono la verità, basandosi sui contributi dei testimoni diretti, tra i quali Karl Mueller, un assistente addetto al controllo dei prigionieri. Egli, al termine del conflitto, passò dalla parte avversaria e riportò i nomi di coloro che si macchiarono di tale delitto. Sono 49 le persone su cui gravano le accuse di questi orrori, stando ai suoi racconti, ma le condanne sono giunte per solo 11 di queste. Questo diventa un esempio di quanto la questione delicata della responsabilità possa gravare sui meccanismi della giustizia.
La memoria di uomini coraggiosi
Molti uomini negli anni del nazismo non hanno esitato a proclamare la propria diversa identità politica. Il rischio fu anche quello di incorrere in torture e maltrattamenti intollerabili. Ora la loro tempra è ricordata in un’effigie di 26 parole tracciate nel marmo su un ponte a metà tra il vecchio e il nuovo porto di Brema. Eppure “si vedono a malapena”. È questo il commento velato di disappunto dello scrittore Ernst.