È la sera del 19 novembre, e folti gruppi di persone, incredule ed attonite, si assiepano nei bar, nei locali. Alcuni uomini litigano animatamente fra loro, alcune donne scoppiano in lacrime, altri, più semplicemente, se tornano silenziosamente a casa, senza parole e con il fiato sospeso per le sorti del Paese. Siamo ad Harare, città di oltre un milione e mezzo di abitanti, capitale dello Zimbabwe, piccolo Stato senza sbocchi sul mare all’estremità meridionale dell’Africa sub-sahariana. Il motivo di tale sgomento è da ricercare nella televisione, o meglio, in ciò che la televisione sta trasmettendo: sul piccolo schermo si delineano i tratti di un uomo dal volto stanco ma severo, in procinto di parlare alla nazione. È Robert Mugabe, il quasi novantaquattrenne Presidente dello Zimbabwe che ha appena annunciato che non si dimetterà dalla propria carica. Conclude il suo discorso con un semplice “Grazie a tutti, e buonanotte”, poi la trasmissione viene interrotta e l’intero Paese sprofonda nel caos. Ma procediamo con ordine.

Lo Zimbabwe, ex Repubblica di Rhodesia, si liberò dal dominio britannico nel 1965, quando si autoproclamò indipendente dopo essere stato per più di quarant’anni una colonia inglese. Tuttavia, la dichiarazione di indipendenza non venne riconosciuta dall’ONU e lo Stato, nonostante le proteste della popolazione locale, continuò ad essere amministrato dalla minoranza bianca di origine anglosassone (in maniera simile a quanto accadeva nel vicino Sudafrica). Nonostante il buon governo del leader bianco Smith, che cercò di appianare il più possibile i contrasti fra le diverse fazioni che si contendevano il controllo del Paese e che risollevò le sorti economiche dello Zimbabwe (a tal punto che venne ribattezzato la “Svizzera d’Africa”), le crescenti tensioni socio-politiche portarono ad una degenerazione della situazione, con lo scoppio di un violento conflitto civile fra bianchi e neri. Alla fine prevalsero i ribelli e Smith fu costretto ad abbandonare il Paese: durante le trattative con la Gran Bretagna per avviare definitivamente il percorso di indipendenza, emerse la figura dell’attivista politico Robert Mugabe. Alle elezioni generali del 1980, le prime di sempre in Zimbabwe, vinse proprio Mugabe, che divenne Primo Ministro; dopo sette anni di governo, alla scadenza del mandato Mugabe si autoproclamò Presidente dello Zimbabwe, eliminando la carica di Primo Ministro e accentrando su di sé tutto il potere. Da allora, Mugabe ha controllato saldamente la nazione, fino alla settimana scorsa, quando gli scenari politici del Paese sono all’improvviso mutati.

Per trentasette anni Mugabe ha governato in maniera incontrastata, reprimendo ogni forma di opposizione. Dopo aver organizzato un governo di stampo vagamente marxista-leninista, il leader africano fronteggiò con successo il partito di opposizione ZAPU, che nel 1983 scatenò una violenta offensiva contro il premier, dando inizio ad una guerra civile che si protrasse per cinque anni e causò migliaia di vittime. Alla fine però prevalse il partito di Mugabe, lo ZANU-PF, che da quel momento non ebbe più rivali nella guida dello Zimbabwe. Il suo regime, sempre più autoritario, trascinò il Paese nella più completa rovina economica e sociale: i bianchi vennero progressivamente cacciati dal territorio, mentre l’economia, un tempo florida, venne fatalmente danneggiata da alcuni scellerati provvedimenti voluti dal Presidente, fra cui l’adozione di una politica economica all’insegna dell’inflazione (vennero stampate nuove banconote, portando così ad una inevitabile svalutazione del dollaro zimbabwano: nel 2015, per arginare una situazione ormai compromessa, la valuta locale venne ritirata, sostituita dal dollaro americano). Per rendere l’idea della drammatica situazione economica del Paese, al momento dell’abbandono della vecchia moneta il cambio venne fissato in 250.000 miliardi di dollari zimbabwani per un dollaro americano!

Questi fallimenti in politica interna hanno destabilizzato notevolmente il governo di Mugabe, che ha dovuto affrontare avversari sempre più agguerriti e problemi difficilmente risolvibili. Il primo di questi è un fattore puramente naturale, ed è l’età, che avanza imperterrita: Mugabe ormai ha quasi novantaquattro anni e, nonostante le dichiarazioni di facciata, non ha più la forza per reggere le redini di una nazione così turbolenta. Inoltre, contro di lui si sono sollevate, oltre alle opposizione interne, molte istituzioni internazionali, che lo hanno accusato di gravi violazioni dei diritti umani. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, però, è un episodio che risale ad appena qualche settimana fa: dopo aver licenziato il vicepresidente Emmerson Mnangagwa, Mugabe si stava preparando a collocare al posto del suo ex collaboratore la moglie Grace, una donna di quarantadue anni più giovane invisa alla popolazione per la sua passione sfrenata per il lusso. Probabilmente è stata la decisione di Mugabe di promuovere politicamente la moglie, osteggiata anche dai militari e dal partito stesso del Presidente, a far scattare la scintilla degli avvenimenti che hanno segnato la cronaca zimbabwana in questi giorni.
Il 15 novembre l’esercito si è ribellato a Mugabe, con l’intento di accompagnare il Paese verso la democrazia: Constantine Guyeva Chiwenga, capo delle Forze Armate dello Zimbabwe, ha fatto arrestare il leader ultranovantenne, imponendogli di rassegnare le dimissioni da Presidente nel giro di pochi giorni. Il golpe, però, è stato un vero e proprio colpo di Stato al rallentatore: a differenza di altre insurrezioni armate, in Zimbabwe non si è ricorso (per ora) alla violenza, così come il succedersi di avvenimenti è stato meno frenetico rispetto agli “illustri” tentativi golpisti del passato. Un colpo di Stato “soft” che ancora oggi non può dirsi concluso. Nella serata del 19 novembre, infatti, il Presidente – e torniamo così all’inizio del nostro ragionamento – ha annunciato in diretta nazionale che non ha alcuna intenzione di dimettersi. Inoltre, leggendo a fatica il suo discorso, ha anche detto che farà di tutto per riportare la situazione alla normalità, prendendosi anche la responsabilità di presiedere il congresso del suo partito, partito che però ha già deciso, nella giornata di martedì, di estrometterlo da ogni incarico (a capo dello ZANU-FN, ironia della sorte, è stato posto proprio l’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa).

Abbandonato da tutti, Mugabe è stato scaricato anche dal suo alleato storico, la Cina di Xi Jinping. Da anni, infatti, il colosso asiatico partecipa attivamente alla politica dello Zimbabwe: la Cina nel 2015 è stato il primo partner commerciale dello Stato africano, con interessi importanti nei settori dell’agricoltura, delle miniere (in particolare di oro e diamanti), dell’energia e delle costruzioni. Xi Jinping, in maniera lungimirante, ha saputo portare la Cina in una posizione di rilievo nel quadro geopolitico del Continente Nero, dando vita a numerose partnership con i governi locali ed ottenendo in cambio notevoli privilegi economici e commerciali: di fatto, il gigante asiatico ha preso il posto, ovviamente con misure e forme differenti, dei vecchi imperi coloniali europei, sapendo sfruttare al meglio la propria esagerata potenza di fuoco dal punto di vista economico e logistico (ogni anno, migliaia di ingegneri cinesi sono al lavoro sul suolo africano, per cercare di cementare ulteriormente il rapporto di collaborazione fra Pechino e i suoi nuovi alleati). È probabile, quindi, che la Cina abbia dato il suo tacito assenso al colpo di Stato in Zimbabwe, come dimostra la visita, una decina di giorni fa, proprio di Constantine Chiwenga a Pechino, dove ha avuto modo di confrontarsi con alcuni diplomatici locali, ricevendo forse l’endorsement di Xi Jinping in persona.
La situazione in Zimbabwe è quindi ben più complessa di come sembra e, vista la posta in palio, è probabile che ci saranno nuovi capovolgimenti. Poche ore fa, infatti, quando tutti meno se lo aspettavano, soprattutto dopo il discorso di domenica sera, Mugabe ha rassegnato le proprie dimissioni, inviando una lettera al Parlamento dello Zimbabwe. Non sappiamo cosa abbia portato il Presidente a questo repentino cambio di programma, né abbiamo notizie di quale sarà il destino del leader deposto. Poche sono le certezze: Mugabe ha ceduto alle pressioni, sia esterne che interne al Paese, e ha lasciato la propria poltrona, su cui con ogni probabilità si siederà l’ex vicepresidente licenziato da Mugabe stesso. Nelle piazze la gente festeggia. “Now we are free” si sente gridare. Ma la situazione è ancora molto instabile, e le domande sono ancora molte. Davvero lo Zimbabwe diventerà un Paese libero e si trasformerà in uno Stato di diritto? Il Presidente tenterà un ultimo colpo di coda, come d’altronde ha già dimostrato in passato di saper fare? L’esercito proverà con un atto di forza a legittimare la propria posizione? Nei prossimi giorni, probabilmente, avremo le risposte che cerchiamo, anche se oggi, dopo trentasette anni al potere, sembra essersi definitivamente conclusa l’era del più anziano capo di Stato al mondo.