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Il nuovo DPCM consegna migliaia di persone al macello

Perché non dovevamo ritrovarci a questo punto

A firma di Benedetta Barone

 

Tra sabato 24 e domenica 25 ottobre è stata approvata la bozza del nuovo DPCM, l’ultimo tassello di un percorso in escalation cominciato circa tre settimane fa e che nelle ultime, fatali giornate è culminato nella chiusura anticipata dei ristoranti e dei locali alle 18, insieme alla temporanea serrata di cinema, teatri e palestre.

Per quanto fosse nell’aria, non riusciamo a contenere un moto di stizzita incredulità: ci ritroviamo senza troppi giri di parole in un contesto analogo a quello della fine di febbraio e una parte di noi non se ne capacita.

Sappiamo che i cosiddetti “richiami al rigore” e le conseguenti strette alle libertà individuali sono graduali come le circonferenze di un mulinello, partono debolmente e poi ti conducono pian piano nell’occhio del ciclone. Prima di quanto pensiamo, potremmo ritrovarci per la seconda volta all’interno di un lockdown generalizzato. Il sentire comune lo aspetta, lo teme come se si trattasse di una macumba collettiva.

Per mesi abbiamo riposato sopra un presupposto fallace, che ora si rivela in tutta la sua sconfinata ingenuità: eravamo convinti che il peggio fosse alle nostre spalle.

Del resto saremmo stati senz’altro più capaci ad affrontare un’eventuale seconda ondata: abbiamo i mezzi, i sistemi di tracciamento, il distanziamento sociale, le mascherine, i tamponi.

E invece, i medici ospedalieri lanciano grida d’allarme dalle corsie delle terapie intensive, che crescono in maniera esponenziale intasando i reparti. Aumentano i morti – 128 nella giornata di ieri, mentre scorrendo i dati della Protezione Civile si nota che ad agosto i decessi erano meno di dieci al giorno. Le metropolitane e gli autobus negli orari di punta sono presi d’assalto in tutti i maggiori centri urbani diffondendo drasticamente il rischio di contagio. I tamponi in Italia sono quotidianamente più di 170mila, ma le code automobilistiche per riceverlo ai drive in durano ore generando dei veri e propri focolai.

Sarebbe anacronistico ritenere di abitare nel migliore dei mondi possibili: ci troviamo pur sempre a fare i conti con una pandemia, mancano le risorse adatte a sostenerla, e come potrebbe essere altrimenti? Non siamo antropologicamente preparati, da un certo punto di vista non lo saremo mai.

Rinunciare ai propri privilegi in nome di una causa collettiva è un concetto che fa a pugni con la società del benessere accessibile a cui eravamo abituati e alla quale attribuivamo una fiducia cieca.

Allenarci, forzarci a ragionare in termini “comunitari” è un impegno che ci impone la realtà dei fatti, volenti o nolenti.

Per questo è essenzialmente ingiusto che a fare le spese delle nuove misure governative sia ancora una volta la popolazione stessa: blandita dalle illusorie promesse che mai più sarebbe stata costretta a scegliere se morire di fame o di salute, ecco che invece i primi a saltare sono proprio le attività commerciali e i piccoli lavoratori.

I ristoratori che a metà maggio hanno riaperto attrezzandosi dei dispositivi di sicurezza vengono di nuovo additati come il veicolo principale della diffusione del virus, loro per tutti, così come i cinema, i teatri, i bar: il capro espiatorio più comodo per tacitare una parte di opinione pubblica. Gli altri, i centri estetici, i parrucchieri, i negozi di abbigliamento, camminano sul filo del rasoio. È questione di tempo prima che il governo imponga la cessazione definitiva di tutti i mestieri, diurni e notturni, fatta eccezione per quelli indispensabili alla produzione.

Laddove la società dovrebbe essere intesa nel suo aspetto più unitario, vince invece la linea della spietata differenziazione tra “ciò che serve” e “ciò che non serve”.

La scuola stessa non viene tutelata a favore del suo ruolo simbolico, ma solo perché contiene i figli di coloro che lavorano, tant’è che i licei sono già passati in massa alla didattica a distanza.

Tutto viene scarnificato, appiattito, sacrificato in nome di una lotta contro il virus che, dopo otto mesi, ancora si riduce a una chiusura brusca e indistinta dei luoghi di apprendimento, di cultura, della ristorazione e dello sport.

La sensazione è chi ci governa, insieme agli scienziati medesimi, ne sappia esattamente quanto a marzo.

Investire nel settore pubblico, nei trasporti, nella sanità, è una priorità non più procrastinabile: approfittare dell’alibi del lockdown doveva rappresentare una soluzione percorribile una sola volta e mai più, esattamente come queste chiusure indifferenziate, che vanificano in un sol colpo tutti gli sforzi che i commercianti e i comuni cittadini hanno faticosamente adottato per poter continuare a campare.