A firma di Benedetta Barone
Il 28 febbraio il Corriere della Sera pubblica un post sulla sua pagina Instagram in cui descrive gli episodi avvenuti il giorno precedente sulla Darsena di Milano. Si trattava di un sabato di inaspettata e fortuita primavera, le temperature erano insolitamente alte. Lunedì era previsto il ritorno in zona arancione, i bar e i ristoranti avrebbero chiuso. Erano le ultime ore di libertà.
Ormai siamo abituati a questo pendolo instancabile che oscilla tra il bastone e la carota, tra la licenziosità contenuta con cui agli esercenti viene concesso di riaprire e la conseguente punizione – perché è inutile nasconderselo, suona proprio come tale – con cui le masse indisciplinate vengono ricondotte a un regime di ordine e di ostruzione della circolazione.
Siamo abituati anche che per ogni gaio respiro che la popolazione arraffa, per stanchezza, per incoscienza o per omologazione, subentra un’eco prolungata di indignazione collettiva, che aumenta in più direzioni, rimbalzando sopra teste appartenenti a categorie trasversali.
Leggendo tra i commenti sotto al post del Corriere, questa reazione rabbiosa appare evidente: “La mamma dei cretini è sempre incinta”; “Una generazione senza cervello”; “Dementi!!! Usare gli idranti, senza se e senza ma… in questo caso ci vogliono le maniere forti!”; “Sono loro il nostro grande problema”; “Una manica di capre viziate… Povera Milano e povera Italia”; “Ma una bella retata in modo da rinchiuderli tutti in un bel capannone che li possa tenere tutti insieme? Ovviamente senza nessuna assistenza medica!”. L’elenco prosegue all’infinito. Sono trecentocinquantaquattro le chiose dei comuni cittadini che battono a raffica sulla tastiera del cellulare.
Effettivamente le immagini non sono edificanti, ma non lo sarebbero state neanche in un periodo storico di apparente normalità: di fatto, si è verificata un’improvvisa kermesse di giovani che, mischiandosi ai passanti casuali, hanno innescato una rissa a cielo aperto, tra calci, spintoni e lanci di bottiglie.
È evidente che, in un contesto come quello in cui siamo immersi, chiunque contravvenga alle regole di tutela sanitaria espone a un rischio concreto la curva dei contagi tenuta già faticosamente a bada e getta in uno stato di frustrazione chi quelle regole le rispetta o prova a rispettarle, e a passeggio sulla Darsena non ci va, o non osa andarci. Sono considerazioni di senso, impossibili da negare.
Tuttavia, a un osservatore attento non può sfuggire l’aspetto inquietante del quadro che si delinea a tinte fosche ogni volta che si misura il termometro degli umori della popolazione.
Tra qualche giorno festeggeremo l’anniversario dell’emanazione del primo lockdown. È passato un anno da quando le esistenze di tutti sono state stravolte in modo brutale. Ma mentre allora la condizione dentro cui siamo stati gettati assumeva una dimensione corale e ci si poteva consolare, stringere a ridosso di una comunità che pativa dello stesso dramma a ogni angolo del pianeta, adesso si è trasformata in una corsa campestre dove, per citare Primo Levi, convivono “sommersi e salvati”: c’è chi resiste e c’è chi rimane indietro, c’è chi ottiene i vaccini e chi no, c’è chi compie un giro immenso per schivare la sventura e chi ne viene investito e affonda senza un grido.
E sarebbe inutile sottolineare che i più sommersi di tutti sono proprio i giovani.
Non tanto perché, come è già stato detto e scritto tante volte, sono stati privati dei luoghi di socializzazione e di cultura, perché le loro vite sono state spogliate di senso e perché si affacciano a un futuro ancora più incerto e traballante.
Piuttosto, perché il loro contrappasso consiste nel trattenere tutto l’astio e l’acredine che attraversa in maniera orizzontale la restante società. Bisognerebbe ragionare sulle conseguenze di cinque intere stagioni di sottrazione delle libertà. Invece li si erge a continui imputati, tacciandoli di egoismo o di frivolezza anche laddove certe azioni, certi impulsi, perfino certi errori, sono connaturati alla natura stessa dell’essere umano. Imbevuti come sono di rimandi al rigore, da parte non soltanto dei governanti, ma soprattutto del sistema di sorveglianza che le piattaforme digitali incrementano ed espandono come le onde di un meteorite, finiscono per trasgredire in modo sordo e impunito oppure, nella maggioranza dei casi, a tacere, ad assoggettarsi, a sopprimere la propria individualità.
Come al solito, l’attenzione alla materia psichica viene immancabilmente esclusa dal dibattito nazionale. La precedenza è regalata a interrogativi di natura pratica, tangibili. Tutto ciò che anima il sottosuolo, il mondo interno delle persone, è sbrigativamente liquidato attraverso poche frasi di circostanza, altrimenti risulterebbe evidente che gli episodi sulla Darsena riflettono un malessere diffuso, non certo uno sfogo di indisciplina.
Esattamente come chiunque abbia un po’ di dimestichezza con gli episodi della storia recente sa, è il conformismo il prodotto diretto delle forme di oppressione.
Insieme alle sparute occasioni di dissenso, la larga parte della comunità dei giovani si è adeguata alle norme vigenti senza esitare, anzi spesso riempiendo le fila di coloro che accusano e giudicano lo scorrazzare sfrontato per le vie del centro in occasione delle riaperture.
Il lockdown della scorsa primavera ha visto le strade urbane piombare in un surreale e distopico silenzio. I ristoratori e i commercianti abbassano la serranda all’ora stabilita dai decreti – per quanto ne so, questa realtà ha avuto solo rare e circoscritte eccezioni, del resto subito sorprese e dissolte. Dopo le dieci di sera, non un’anima si scorge nel deserto spettrale delle città. Il Natale e il Capodanno sono stati festeggiati nell’assenza di condivisione – le multe emesse la notte del 31 dicembre sono state poco più di mille, una percentuale irrisoria rispetto alla quantità di potenziali trasgressori.
Nessuno capisce o sembra capire che la reazione più immediata a questo genere di inedite gerarchie è l’acquiescenza, e non il suo contrario.
Rappresentiamo una generazione che aveva sempre campato secondo un comodo ventaglio di valori progressisti. La mobilità, l’accessibilità, la pace permeavano a tal punto l’ambiente fisico e mentale entro cui ci muovevamo che le reputavo avvinte in modo indissolubile alle radici della società. Ero convinta che a fronte di qualsiasi calamità o agente esterno, avremmo difeso il nostro modo privilegiato e libertario di stare al mondo. Ero convinta che avremmo opposto resistenza.
E invece, checché ne dica l’opinione generalista, non è stato così.
Ci siamo scoperti refrattari, accondiscendenti, responsabili.
Forse, quando Bennato cantava Presto vieni qui, ma su non fare così/ Ma non li vedi quanti altri bambini/ Che sono tutti come te/ Che stanno in fila per tre/ Che sono bravi e che non piangono mai, disegnava il ritratto di una società destinato a non mutare, a presentarsi sempre identico nelle sue ostinate contraddizioni.
Ai suoi vertici troviamo naturalmente l’intera frangia della sinistra parlamentare, che, scordatasi dei bollori del socialismo delle origini e dimentica della categoria degli “umiliati e offesi”, la quale pure dovrebbe appartenerle storicamente, ora si rivolge esclusivamente a un dovere morale sterile e ripetitivo, avulso da qualsiasi contatto col popolo.
Troviamo gli intellettuali, che paiono essersi riuniti sotto a un’unica, identica campana per suonare imperativi di tendenza: dimentichi anch’essi del loro ruolo strutturalmente indocile, da più di un anno suggeriscono di interpretare la pandemia come un fenomeno istruttivo, giunto non a caso per punire le nostre esistenze frenetiche e ombelicali.
E troviamo soprattutto l’induzione ad un mono-pensiero dominante, che taccia chi non si adegua attraverso l’espediente della sistematica svalutazione: chi tenta di introdurre nuovi elementi di dibattito viene trattato alla stregua dei terrapiattisti, messo alla berlina, paragonato alla più infima categoria di ignoranti.
Allo stesso tempo però, non vi è alcuna riparazione o risarcimento per chi segue le regole e non protesta.
Sacrificati sull’altare dell’emergenza sanitaria, siamo chiamati a comportarci come “bravi soldati”, per coniare l’espressione dell’attore Claudio Santamaria. Tenuti a bada da quello stesso paradigma che ci abituò all’abbondanza e al disimpegno e che ora ci vuole silenti, invisibili, asserviti a un sistema che spacca a metà la realtà: da una parte la salute, dall’altra l’economia. E coloro che non producono reddito e non rischiano la vita, gli individui nella loro complessità, nella loro molteplicità, scompaiono all’ombra di questi due binomi.
Nel Cinquecento, Étienne De La Boétie, ancora minorenne, scrive un breve testo dal titolo Discorso sulla servitù volontaria. Indagando le ragioni psichiche, sociali e antropologiche che legano gli uomini al potere – questioni che saranno riprese poi da Spinoza, Stirner e Foucault – da La Boétie erompe un atto d’accusa precocissimo, e tuttavia sempre scomodo, in quanto riguarda tutte le comunità umane, dall’antichità a oggi: perché gli sfruttati non si ribellano? Perché gli asserviti non contrastano il potere invece di subirlo? Cosa c’è di fascinoso, di conveniente nella figura del tiranno? Perché le popolazioni accettano di dipendere dall’autorità, anche se essa di fatto soffoca e limita forme primarie di aggregazione e di autonomia di pensiero? Scrive La Boétie: “Il potere si regge strutturalmente sulla connivenza delle sue vittime”.
Naturalmente, in questo caso siamo votati al rispetto e alla tutela della salute dell’altro in quanto “altro da sé”. Nonostante l’epoca individualista e apparentemente sprezzante in cui abitiamo, sono tornati di importanza capitale lo statalismo, la condivisione e la partecipazione a una medesima causa.
Una pretesa quantomeno forzata, soprattutto perché proviene da quelle stesse generazioni che hanno educato i loro figli alla rilassatezza, ad affrontare il mondo con duttilità, a non prendersi troppo sul serio.
Come esigere che i giovani accolgano un tale cambio di paradigma senza difendersi, senza mostrare la minima opposizione?
Chi ci governa dovrebbe sapere che è molto più allarmante una popolazione che ostenta una resa assoluta, anche a fronte di un pericolo oggettivo: la società non è mai un corpo omogeneo e compatto. Presenta al suo interno migliaia di terminazioni nervose che si ramificano in tutte le direzioni. Ritenere di poterle controllare avvalendosi di un apparato di persuasione che le tiene di fatto in ostaggio da mesi, significa peccare di ottusità.
Filosoficamente parlando, sarebbe stato estremamente più salutare se ci fossimo presi la briga di contestare le misure messe in campo dai comitati politici e il conseguente regime che si è imposto.
Infatti, per quanto la lotta al virus preveda necessariamente una cooperazione virtuosa e la piega autoritaria dei governi sia frutto di un’eccezionalità dettata dalle circostanze, è altresì sacrosanto difendere il diritto alla rivalsa.
La pandemia si rivela un nemico ben più insidioso della guerra o dei totalitarismi ante litteram. Come ha scritto Alessandro Piperno su La Lettura, essa è in grado di disgregare il tessuto abitativo e sociale più di ogni altra calamità. Inibisce gli slanci tesi alla convivialità, i peccati di gola, ogni anelito materialista – quello di spendere, comprare, offrirsi una cena di pesce, ordinare un cappuccino mentre si sfogliano le pagine di un giornale seduti al tavolino di un caffè in una piazza battuta dal sole; sono disincentivati i desideri, tanto più importanti in quanto appartengono a una parte atavica sepolta dentro di noi, rimasta bambina, con i suoi capricci e le sue urgenze.
Chiedere dei sacrifici che contrastano così platealmente con le nostre indoli di base, nel mio immaginario non avrebbe potuto esimersi dall’incontrare rivolte e sollevazioni di massa.
Per questo la nazione non dovrebbe sorprendersi o incitare allo scandalo quando qualche testa si sfila dalle maglie del rigore e tenta goffi tumulti.
È la prova che un concetto di popolo esiste ancora. Significa che non abbiamo ancora a che fare con un Paese di paladini della morale, che contemplano con sguardo severo i marciapiedi vuoti dalle finestre dei loro appartamenti. Significa che non ci siamo ancora ridotti a campare come eunuchi, dotati del solo impulso a lavorare, nutrirsi e andare a dormire. L’esistenza, nella sua complessità, consiste in ciò che esula dallo stretto necessario per vivere. Spesso è frutto proprio di ciò che si trova “sulla cima della bottiglia”.
Laddove la soggettività degli individui sgomita per emergere, non si può che tirare un sospiro di sollievo.
Per citare ancora La Boétie: “Nessuna autentica felicità ha mai premiato una vita assoggettata”.