L’elefante nella stanza: così gli inglesi chiamano un problema troppo grande per essere ignorato. Pare che molti governi, però, stiano riuscendo a farlo, analizzando la disinformazione tramite le lenti del giornalismo o del diritto, ma non della data science, che invece è tra le discipline più indicate per studiare il fenomeno. Una delle massime autorità in materia è Walter Quattrociocchi, informatico e professore presso La Sapienza Università di Roma.
Come si presenterebbe a uno sconosciuto, Professor Quattrociocchi?
Beh, come un salame a cui piace smanettare al computer. Scherzi a parte, sono un data scientist, ovvero mi occupo dell’analisi di dati. Nello specifico analizzo i sistemi sociali attraverso gli strumenti della fisica dei sistemi complessi.
Qual è la sua formazione?
La mia formazione è in informatica, con contaminazioni di psicologia. I singoli SSD (settori scientifico-disciplinari), se presi singolarmente, non esauriscono la complessità di un problema, che invece è proprio ciò che mi attira. Mi interessa studiare i problemi veri, quelli strutturali.
Come si è avvicinato alla disinformazione per la prima volta?
È successo per caso, in realtà. Era il 2012 e mi trovavo a Boston, presso il laboratorio di Alessandro Vespignani alla Northeastern University. Tenendomi informato sulle vicende nostrane, per lenire la nostalgia di casa, mi imbattei nel nascente blog del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. Mi incuriosì il modo in cui la descrizione di eventi fattuali veniva alterata in chiave politica, trasformandola in una interpretazione. Per approfondire il fenomeno creammo contenuti falsi, quasi satirici, e li diffondemmo tra gli utenti: divennero virali. La ricerca ebbe molta risonanza negli Stati Uniti e all’estero, sia per il titolo volutamente ironico – “Data Scientists Troll Conspiracy Theorists”, ovvero “Analisti dei dati prendono in giro i complottisti” – che per la portata dei risultati.
Di che risultati parliamo?
Riassumendo, lo studio aveva dimostrato scientificamente il funzionamento del confirmation bias, che portava gli utenti a rifiutare i contenuti che non rispecchiavano la loro visione del mondo e a premiare quelli che invece concordavano con le loro opinioni. Questo rende i social delle immense “camere a eco”, echo chamber, i cui fruitori si polarizzano a seconda delle narrazioni cui aderiscono.
Ovviamente molti giornalisti non gradirono, perché i risultati della nostra ricerca sminuivano l’importanza del loro mestiere, soprattutto in merito al cosiddetto debunking delle notizie false, la cui efficacia è molto sopravvalutata. Invece di smentire le singole fake news è molto più produttivo esporre i meccanismi dietro alla polarizzazione e alla disinformazione, agendo in una ottica di pre-bunking.
Quindi cosa è la disinformazione?
Possiamo definire la disinformazione come un effetto collaterale dell’impatto dei social media sul mondo dell’informazione. Questa definizione comprende il fenomeno delle narrative contrapposte, il fenomeno delle echo chamber e il fenomeno della segregazione. Sui social ogni gruppo si raccoglie intorno a una narrativa condivisa, che accetta come “verità”, e perciò ogni gruppo ha la sua “disinformazione”, ovvero ogni narrativa che contrasta con quella percepita come “dominante”.
Come opera la disinformazione? Se un evento è falso, come può diventare vero?
Ovviamente, se l’acqua bolle a una certa temperatura, non c’è nulla da fare. I dati fattuali sono incontrovertibili. Purtroppo, però, in assenza di riscontri empirici diretti è impossibile confermare o smentire la veridicità di un dato. Verità e falsità acquisiscono dunque la stessa dignità. Inoltre nel caso dei fenomeni complessi, come quelli sociali, molte informazioni sono semplicemente assenti, e la mente umana cerca di colmare i vuoti con delle supposizioni che, se errate, portano a interpretazioni fuorvianti dei dati fattuali.
Qual è il ruolo elettorale e geopolitico della disinformazione? È vero che dei post sui social media possono alterare il risultato di elezioni reali?
Si fa un gran parlare dell’impatto politico della disinformazione, ma è tutto da vedere. Stiamo conducendo uno studio sulla correlazione tra infodemia e tassi di vaccinazione contro il Sars-COV-2, per esempio, dal quale risulta una certa “cristallizzazione” delle dinamiche comunicative. Nello specifico pare che le echo chamber attirino sempre più utenti che condividono la narrazione ivi dominante, rendendoli la maggioranza all’interno dell’intera piattaforma, che quindi diventa una gigantesca echo chamber. Possiamo definirla una echo platform in questa fase.
Le narrazioni colonizzano intere piattaforme, creando bolle di utenti che entrano raramente e spesso conflittualmente in contatto l’uno con l’altro. Questo significa che la disinformazione potrebbe rendere gli stimoli esterni ininfluenti nella formazione delle opinioni individuali, anziché rappresentare l’ingerenza esterna per eccellenza, una sorta di mostro che ci entra nella testa e ci pilota. Ci porta a credere a ciò cui volevamo già credere da prima.
In questo panorama risulta evidente l’inadeguatezza degli ordinamenti nazionali. Quale è il futuro della governance digitale?
L’errore più grosso che sia stato commesso finora è stato ignorare le evidenze scientifiche in materia, contattando molti giornalisti che non avevano cognizione della struttura del problema. Le poche norme che ci sono, oltre a doversi bilanciare con la libertà di stampa e di espressione, prendono atto degli aspetti superficiali della questione e basta. Prima di legiferare occorre capire che il problema non è la disinformazione di per sé, ma la polarizzazione.
Che consigli darebbe a un cittadino, soprattutto se giovane, che vuole navigare online con consapevolezza?
Consiglierei di tenersi aggiornati sugli sviluppi scientifici in materia di interazione sui social media. Non serve essere esperti di informatica o scienze cognitive: per esempio il Data Science Lab della Sapienza, dove lavoro io, ha un profilo Instagram che utilizza per divulgare i risultati delle sue ricerche. Consiglio di seguirlo.
Molto interessante. Si tratta dell’ennesima eccellenza italiana che passa in sordina?
Beh, direi che possiamo essere soddisfatti. Collaboriamo con il G7, con la Farnesina, con la RAI e con l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Come è stato, da informatico di formazione, affrontare gli aspetti psicologici e sociologici della disinformazione?
Non è stato difficile, avevo già conoscenze basilari di teoria della mente e scienze cognitive, perciò ero messo abbastanza bene e sapevo orientarmi. Conoscevo già i meccanismi mentali del bias, per esempio, o della distorsione.
Ci consiglia tre libri per approfondire il tema della disinformazione?
#Republic, di Cass R. Sunstein, è un’ottima lettura. Questa non è propaganda, di Peter Pomerantsev, offre un punto di vista coinvolgente sulla disinformazione, e infine c’è anche il libro che ho scritto insieme ad Antonella Vicini, Misinformation, in cui sono riassunti i risultati delle nostre ricerche.