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“La disciplina di Penelope”, l’ultimo giallo di Gianrico Carofiglio

Un'indagine per far luce sulla fragilità e sulla ruvidezza di una donna ex Pm

“La disciplina di Penelope”, edito Mondadori, è l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio che torna sulle scene letterarie con un giallo scorrevole, lineare e tutto incardinato attorno alla vita di una donna di giustizia ex Pm.

Della protagonista – Penelope appunto – non conosciamo il passato che rimane adombrato da un velo di mistero. Possiamo solo provare a dargli una vaga forma (se mai ci interessasse) alla luce dei suggerimenti sparsi qua e là nelle pagine che galoppano leggere tra le mani del lettore. Quel che conta è il presente, trascinato nolente nei fasti di un tempo ormai lontano e doloroso.

Carofiglio dà voce a un personaggio diverso dai precedenti

Carofiglio – che ci ha abituati a riconoscibili personaggi maschili come il Maresciallo Fenoglio e l’Avvocato Guerrieri – si immerge, questa volta, nelle acque profonde del dar voce a una donna e il suo lavorio di immedesimazione non sfugge. La penna di un uomo attribuisce, così, robustezza e ruvidità a una donna inviluppata in fragilità nascoste, con incoerenze irriverenti e spudorate e con nevrosi mai risolte.

Carofiglio ci regala un personaggio di schietta – ma non rara – bivalenza, un personaggio a tratti duro e misurato, a tratti caduco come vetro cristallino. E la convivenza di queste due anime in una sola donna la si percepisce sin dalle prime pagine del libro.

“Fu in quel momento che mi imprese la vertigine: per qualche istante un velo nero mi calò davanti agli occhi, impedendomi di vedere quello che mi stava attorno. […] Quando mi sentii più sicura sulle gambe presi a camminare, prima con circospezione, poi in modo quasi normale, e in breve mi ritrovai su un itinerario che avevo fatto un numero infinito di volte, nell’altra vita. Tenevo gli occhi fissi in avanti per evitare qualsiasi sguardo, qualsiasi possibilità che qualcuno mi salutasse o addirittura provasse a fermarsi per parlarmi”.

Penelope Spada: la protagonista

Penelope Spada è un ex pubblico ministero. Da quando ha dovuto lasciare il suo lavoro, vive una vita caratterizzata dalla sregolatezza e dell’abuso di alcol nella grigia Milano, fredda come le relazioni che Penelope intesse all’insegna di una indecifrabile comunicazione silenziosa (di cui sembra essere maestra). Ma quando Penelope accetta l’incarico di risolvere un caso di presunto uxoricidio, le sue energie – prima sperse nell’aria – si condensano tutte nell’attività investigativa, nonostante i pochi elementi a sua disposizione per ricostruire il quadro delittuoso. Questo ritrovato vigore le consente di iniziare un percorso, sicuramente non regolare e asincrono, che passa dalla ricerca di una definizione di sé, all’amara accettazione di un nostalgico passato, alla costruzione impervia di “un vocabolario preciso per descrivere le proprie sensazioni interiori”.

 “Se uno dice indifferentemente: felice o entusiasta; oppure triste e infelice; oppure se dico sono arrabbiato e invece è triste; o viceversa se dice sono triste e invece è solo molto arrabbiato, non potrà mai sottrarsi all’influenza occulta di quelle emozioni e di quei sentimenti che non sa riconoscere. Viceversa, dare un nome alle emozioni negative riduce il loro potere su di noi”.  

Un giallo tutto da scoprire

Il giallo è ben costruito, anche se talvolta è tenue, il che non dispiace in quanto rende la storia più reale e palpabile. Instilla piccole dosi di giuridichese e lascia intravedere, in maniera più o meno evidente, tutta l’esperienza professionale di Carofiglio che è stato, a lungo, un magistrato. Che questo non spaventi il lettore neofita che viene, anche lui, abbracciato dalla lucidità, dalla precisione, dalla semplicità della narrazione. Piacevoli ed epifaniche, poi, le riflessioni sui meccanismi cognitivi con cui ci si approccia al mondo e che provocano, talora, una cecità selettiva, una visione a tunnel.

 

“Bisogna stare attenti alle intuizioni investigative; bisogna stare attenti a non saltare subito alle conclusioni attraverso gli indicatori linguistici. In realtà bisogna stare attenti a non saltare subito alle conclusioni e basta, indicatori linguistici o altro. […] Saltare alle conclusioni è come mettersi dei paraocchi che ti impediscono – letteralmente di impediscono – di vedere tutto quello che contrasta con quelle conclusioni che invece potrebbe essere decisivo. […] Un linguaggio freddo e distante consente di tenere la sofferenza sotto controllo ognuno si difende dal dolore o dalla paura come sa e come può”.

Risolto il caso, alla fine del romanzo, ci si sente un po’ “nelle scarpe” di Penelope, ci si accovaccia sotto la sua pelle, così imperfetti, un po’ duri, famelici e ardentemente bisognosi di umanità ma incapaci a chiederla.

Quale sia la disciplina di Penelope? A voi lettori “l’ardua sentenza”!