Nell’era della crisi pandemica coviddiana la partita geopolitica si disputa su un nuovo terreno di gioco, quello della corsa agli armamenti anti-Covid. Il premio in palio è molto appetibile e alimenta l’antagonismo tra i concorrenti: chi sviluppa per primo il vaccino non solo passerà alla storia come il salvatore della Patria, ma potrebbe anche fare la storia, ridefinendo equilibri e scenari dell’arena internazionale. La prima cosa da fare è scegliere la strategia da mettere in campo, se collaborare e fare squadra oppure correre da soli, il che potrebbe essere decisivo per essere decretato/i vincitore/i.
L’obiettivo è chiaro a tutti: addomesticare e sconfiggere questo virus micidiale il più presto possibile agendo contemporaneamente su più fronti, dalla prevenzione alla profilassi vaccinale alle cure farmacologiche. La stretta sui tempi richiede di sacrificare la ripetizione di alcuni passaggi di verifica dei prodotti sperimentali per condensare in poche settimane un processo che normalmente impiega anni. C’è da sperare che nella valutazione di quali step bypassare si proceda con buon senso e cautela, in nome della qualità e della sicurezza di un farmaco essenziale quale è il vaccino anti-Covid.
A contendersi l’agognato primato sono grandi potenze e attori minori, dagli Usa alla Cina e alla Russia e dall’Italia a Israele, multinazionali e case farmaceutiche, quest’ultime assoldate dallo/gli Stato/i partner affinché mettano a disposizione scienziati e altri esperti per trovare la panacea a salvaguardia della salute pubblica e a tutela della sicurezza nazionale (ma anche globale, nella prospettiva di una condivisione a livello mondiale dei risultati della suddetta ricerca).
In questa sfida la Ue si sta riscoprendo unita e i suoi Stati membri animati da un comune sentire: Italia, Germania, Francia e Olanda, per esempio, hanno sottoscritto un contratto con AstraZeneca per l’approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi di vaccino da destinare a tutta la popolazione europea. Il prodotto candidato è quello dell’Università di Oxford e la sperimentazione dovrebbe concludersi in autunno, con la distribuzione della prima tranche entro la fine dell’anno.
Gli Usa hanno invece deciso di riproporre anche in questo caso la presunzione dell’America First e l’amministrazione Trump ha invitato gli Stati federali a tenersi pronti a somministrare il vaccino anti-Covid già a novembre: se così fosse, il Presidente potrebbe garantirsi altri quattro anni in pianta stabile alla Casa Bianca.
Per quanto riguarda la Cina, da giugno è in corso l’immunizzazione dei soldati dell’Armata Rossa: il vaccino di CanSino è alla fase 3 di sperimentazione, l’ultima prima dell’approvazione definitiva, così come l’altro proposto dall’azienda Sinovac. Non c’è però alcuna garanzia rispetto alla distribuzione da parte di Pechino al di fuori dei suoi confini nazionali.
Infine, ultima, ma non per importanza, in questa che sembra a tutti gli effetti una nuova guerra fredda è la Russia, che ricorda la rivalità e le tensioni del post-seconda guerra mondiale nel nome che ha dato al suo cavallo di battaglia: Sputnik V. Registrato l’11 agosto scorso, Putin lo ha fatto testare perfino su una delle sue figlie, garantendo che è sicuro e funziona. Ad oggi il Cremlino è in testa nella corsa per la vittoria, anche se non mancano critiche e ammonizioni da parte della comunità scientifica e di diversi Paesi occidentali che dubitano sulla sua efficacia e soprattutto contestano che la documentazione sui test clinici non sia né chiara né trasparente.
La competizione per il riscatto in termini di prestigio, soft power e influenza su quegli Stati che dovranno acquistare il vaccino da chi ne detiene il brevetto perché arrivati secondi nella classifica finale, potrebbe poi anche interessare i rapporti economici, sfociando in una guerra sul costo del prodotto: dal momento che, essendo diventato il bene primario per eccellenza, l’antidoto in questione ha una domanda altissima, chi scopre la formula vincente del principio attivo potrebbe giocare al rialzo per dare un input decisivo alla ripresa dell’economia nazionale.
Per evitare di cadere in simili speculazioni e per garantire un’accessibilità diretta e universale a un prezzo ragionevole, che non penalizzi i Paesi più poveri e quelli meno competitivi, ci sarebbe bisogno di una direzione centrale e sovranazionale come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che però attualmente sembra essere essa stessa in difficoltà e impegnata a difendere la sua autorevolezza dalle pesanti accuse che provengono dall’oltre Atlantico circa la sua collusione con il Paese del Dragone e la sua discutibile gestione della pandemia.
La partita resta aperta, a costo di decidere le sorti del mondo a suon di rigori.