Del movimento Black Lives Matter e del suo simbolo, George Floyd, già tanto si è parlato e discusso. Le parole razzismo, discriminazione e ingiustizia sono state sulla bocca di tutti per settimane, hanno avuto il tempo di fare il giro del mondo e tornare indietro, per poi, sentendosi un po’ ignorate, ritornare a casa, in America.
Non credo di offendere nessuno se dico che per noi, lontani dal loro luogo di esplosione, quelle parole non sono state tanto di più di una momentanea empatia per una lotta che fortunatamente, anche se solo apparentemente, non tocca a noi combattere. E il motivo è semplice e lontano dal biasimo: possiamo convenire che il razzismo si annidi ancora negli interstizi dei nostri rapporti sociali, ma allo stesso tempo ci possiamo rassicurare sul fatto che non sia più sostenuto da formali istituzioni giuridiche.
Ecco, i neri d’America non possono permettersi la stessa rassicurazione.
L’omicidio di George Floyd, per loro, non è stata semplicemente una manifestazione di un secolare razzismo culturale, ma la conseguenza di un preciso sistema giudiziario, che dalle leggi Jim Crow è arrivato fino alla Mass Incarceration. Un sistema, che con due secchiate d’acqua e degli abiti nuovi, è riuscito a rimettersi in piedi dopo il quasi K.O. subito dal movimento per i diritti civili.

Sei anni di respiro…
Se nel 1965 il presidente in carica Johnson dichiara l’abrogazione delle leggi Jim Crow che, ricordiamolo, per un secolo dalla fine della schiavitù hanno perpetuato il rigido sistema segregazionista e discriminatorio negli States, solo 6 anni dopo i neri sarebbero ripiombati nell’incubo da cui avevano lottato per liberarsi.
… Ritorno nell’ “American Nightmare”
Nel 1971 Nixon dichiara aperta la “war on drugs”, la sua politica contro l’uso delle droghe. I suoi ordini erano chiari, sarebbe stato “necessario condurre un’offensiva nuova e totale”, cioè l’incarcerazione di chiunque avesse spacciato o fatto uso di stupefacenti. Presentando la questione dell’abuso di droghe come “il nemico numero uno degli Stati Uniti”, Nixon non poteva che apparire come il grande eroe nazionale.
I finanziamenti alla polizia antidroga e agli organi amministrativi salirono alle stelle. Allo stesso modo crollò la giurisdizione della Corte Suprema nei problemi del sistema penale. Dedicandosi semplicemente al corretto funzionamento del processo, ignorava completamente la massa di ghiaccio che c’era sotto, tutto quello che capitava prima e dopo il processo.
Il problema principale era la nuova forza di cui veniva investita la polizia di strada, legittimando il cosiddetto “stop and frisk”, cioè la possibilità della polizia di fermare, perquisire e interrogare civili fermati per strada. Una semplice dubbia occhiata poteva significare l’immediata persecuzione e incarcerazione preventiva.
Inutile dire che le vittime privilegiate erano afroamericani e latini.
Mass Incarceration
Con il successivo governo Reagan la popolazione carceraria raddoppiò in 8 anni, passando da 329mila incarcerati a 627mila. A parità di reati, il numero di neri incarcerati superava di gran lunga quello dei bianchi. Tra il 1983 e il 2000 l’incremento dei detenuti afroamericani era di 26 volte, contro un incremento di 8 volte dei detenuti bianchi. Nel 2014 un nero su 14 era in prigione.
I neri erano effettivamente colpevoli dei crimini per cui venivano perseguiti? Sicuramente non tutte le sentenze erano infondate, ma comunque non si può non tener conto della situazione di contorno. Da una parte una semplice mossa sospettata rappresentava un ragionevole dubbio per fermarli e incarcerarli preventivamente. Dall’altra non si può negare che vivere in una condizione di costante sospetto, violenza e povertà restringa, e non di poco, l’orizzonte di possibilità di vita di un uomo o una donna. Imprigionare un uomo per aver spacciato o fatto uso di droghe, significa affermare con sicurezza che avrebbe potuto fare altrimenti. Ma è sempre così?
Fu proprio l’ex consigliere di Reagan ad alzare il sipario sul retroscena della guerra alle droghe:
“Non potevamo rendere illegale l’essere contro la guerra o l’essere neri, ma facendo in modo che il pubblico associasse gli hippies con la marijuana e i neri con l’eroina, e poi criminalizzandole entrambe, avremmo potuto distruggere quelle comunità. Avremmo potuto arrestare i loro leader, razziare le loro case, rompere i loro incontri e denigrarli notte dopo notte sui telegiornali della sera”.
La verità era lampante: la lotta contro le droghe non era altro che uno strumento di controllo razziale, stavolta mascherato rispetto alla schiavitù e alle Jim Crow, ma comunque sostenuto dallo stesso razzismo intollerante.
Ancora una volta i Neri, bussando alle porte del mondo bianco, se le videro chiuse in faccia.
Una vita distrutta
Il problema principale era che la loro discriminazione non si risolveva soltanto nella detenzione, ma in tutto quello che questa comportava. Agli ex detenuti tutt’oggi vengono di fatto negati gli stessi diritti che i neri avevano conquistato con i movimenti per i diritti civili: non possono votare, partecipare a una giuria, godere delle politiche di walfare o fare domanda per una casa popolare. Per non parlare poi della definitiva stigmatizzazione sociale di cui è vittima un uomo o una donna con la fedina penale sporca, che mostra i suoi effetti soprattutto nella ricerca di un lavoro dopo la detenzione.
In pratica in America essere catturato dai tentacoli del meccanismo della giustizia penale da nero significa rimanerne imbrigliato a vita, ripiombando in uno status di morte sociale.
Come le leggi Jim Crow sono spesso definite “una servitù con un altro nome”, la mass incarceration inaugurata da Nixon non fu che una Jim Crow con un altro nome.
Black Lives Matter chiede una giustizia dal significato preciso
È in questa luce che va letto il recente omicidio di George Floyd come quello di molti altri neri degli anni passati. Il 46enne americano non è che una vittima tra milioni di afroamericani di un sistema che, riadattandosi alle necessità storiche, non ha fatto altro che legittimare la loro continua segregazione e discriminazione.
Black Lives Matter è la richiesta non solo di eliminare il razzismo dallo sguardo della società, ma la tutt’ora vigente cornice giuridica che lo sostiene. È la richiesta di spezzare la profonda e radicata catena che lega razza, povertà e giustizia.
La politica di Trump ha sostanzialmente azzerato i miglioramenti che erano stati portati avanti nel campo della giustizia penale americana, facendosi portavoce di una durissima campagna in campo criminale. Arrivò a sostenere un ritorno massiccio della pena di morte. In uno dei suoi tanti acclamati discorsi arrivò a dire: “Chiaramente non abbiamo troppe persone in prigione, piuttosto il contrario”.
La popolazione carceraria americana vanta il 25% (una popolazione di 2,2 milioni, di cui il 40% è nero) dei detenuti di tutto il mondo, con una popolazione civile che costituisce meno del 5% di quella globale. 7,7 milioni di persone hanno trascorso un periodo della loro vita in prigione. Forse, come per le sue asserzioni circa l’invidiabile andamento del Paese nella lotta contro il Covid-19, Donald non aveva controllato bene i dati.
Una speranza per un vero cambiamento
Ora è il momento del nuovo presidente in carica Joe Biden che si è offerto di pagare il conto di secoli di negazione di diritti alle minoranze. Riprendendo quanto detto fino ad adesso, la sua dovrà essere una lotta su due fronti: non solo dovrà assumersi l’arduo compito di sconfiggere una cultura razzista, che ha avuto 400 anni di storia per affondare saldamente le sue radici nella società americana, ma ancora prima sarà suo compito capovolgere un sistema giudiziario, che un tale razzismo alimenta e sostiene.
La speranza di tutti i neri d’America è che finalmente, dopo quasi 250 anni dalla nascita degli USA, sia concesso anche a loro, di nuovo e definitivamente, di godere dei diritti inalienabili alla libertà e al perseguimento della felicità.