A firma di Benedetta Barone
Di recente mi è capitato spesso di pensare a un film uscito in Germania nel 2008, L’onda (Die Welle): in una scuola superiore tedesca, un insegnante si trova a discutere con i suoi studenti a proposito dell’autocrazia e della dittatura, delle loro radici e delle loro sorti. La domanda che il professore tenta di porre è la seguente: può un regime autoritario trovare ancora consenso in un mondo ormai largamente democratizzato come il nostro? La classe risponde in modo piuttosto coeso di no. Le nazioni europee, soprattutto dopo i tragici eventi della seconda metà del Novecento, non si sarebbero azzardate a riproporre forme di governo dittatoriali. I totalitarismi appartengono a una fase storica ormai conclusa, fanno parte di un passato sanguinoso che, nella sua epicità, ha smesso di riguardarci.
Questa convinzione illusoria è stata condivisa da tutti noi per più di mezzo secolo. Abbiamo vissuto nella gelosa e assurda certezza di privilegi assoluti e di diritti categorici. Fino a un paio di mesi fa, eravamo sicuri di non avere nulla da temere.
Il professor Wenger, allora, propone alla classe un esperimento: dall’indomani avrebbero stabilito un modo identico di vestirsi, di salutarsi e di parlare. Ciascuno di loro avrebbe rinunciato a parte delle sue libertà individuali per costruire un movimento collettivo.
La coesione in un unico ideale, in cui il singolo e le sue esigenze vengono sacrificate per il presunto benessere della massa di appartenenza, prevede quasi sempre delle conseguenze inevitabili: la tentazione di scivolare nel fanatismo e perciò dividere l’umanità in criminali ed eroi, affidarsi a una salda figura di riferimento, creare nemici immaginari, sfogare i propri impulsi repressi attraverso uno sfoggio virile di forza.
Chiunque di noi trova un implicito sollievo in certe forme di imperativi autoritari, non solo perché è più facile stabilire la propria identità all’interno di un unico sentiero già tracciato, ma anche perché autorizzano l’illusione di credere in qualcosa.
In questo momento di lotta al coronavirus siamo precipitati in un clima di emergenza che ha richiesto l’adozione di misure sempre più restrittive. Di giorno in giorno, esse sembrano amplificarsi e irrigidirsi e la spiacevole sensazione è quella di non avere avuto il tempo di realizzare che il presente a cui eravamo abituati, pieno delle sue ridenti libertà, è diventato lo strumento per un ritorno a certe vecchie, cattive abitudini.
Certo, si tratta di uno stato di cose alterato, eccezionale. Siamo “in guerra”, come dicono alcuni. Per allentare la morsa del contagio, era inevitabile ridurre gli assembramenti, costringere i cittadini alla quarantena forzata, chiudere le attività. Il punto però è che un numero sempre maggiore di virologi e di scienziati si trova d’accordo nell’affermare che l’avanzata del virus può essere al momento solamente ridotta e non sconfitta. In un pianeta connesso e globalizzato come quello in cui viviamo, non saremo al sicuro solo perché ci saremo limitati a ripulire il nostro minuscolo orto. Bisognerà aspettare un vaccino. Prima di allora, l’ondata dei contagi sarà altalenante, crescerà e diminuirà a seconda delle stagioni, costringendo le persone a convivere con un costante senso di allerta.
Alcuni prevedono addirittura che per i prossimi due anni le quarantene verranno imposte periodicamente, a seconda della curva dei contagi.
Stando così le cose, il lockdown fisico potrebbe rivelarsi ben presto una condizione psichica della coscienza.
Per citare il filosofo Agamben, è paradossale che la protezione della vita degli individui consista nella sospensione della vita stessa.
Secondo un recente sondaggio che ho applicato tra i miei conoscenti di età diverse, più del 52% degli intervistati afferma di ritenere immorale l’imitazione del modello coreano come soluzione alla crisi attuale, ma lo stesso 47,17% ritiene saggio applicare misure anti democratiche per contenere l’emergenza.
La maggior parte dei cittadini, dunque, accetterebbe di vivere all’interno di una realtà dove la polizia pattuglia le strade e le forme più basilari di autodeterminazione sono del tutto abrogate, ma rifiuta di appoggiarsi deliberatamente al metodo di controllo invasivo utilizzato in Corea.
La verità è che esiste già uno scarto minimo tra noi e loro, ma fingiamo di non essercene accorti, perseverando nell’idea che si tratta di una situazione “stra-ordinaria”, temporanea e di breve durata.
Purtroppo però, ricorrere all’uso della forza e a provvedimenti illiberali è tutt’altro che “stra-ordinario”. Anzi, è la prassi in momenti storici come questi, quando la paura e l’incertezza dilagano e ci si sente rassicurati dall’antico servilismo nei confronti dei poteri forti.
Ecco perché al giorno d’oggi, chiunque sgattaioli fuori di casa per svolgere mansioni più o meno essenziali si espone al rischio di denuncia non solo da parte degli organi dello Stato, ma anche da quegli stessi concittadini che si sono riuniti sotto la campana dei richiami totalitari.
Dappertutto si respira un nuovo e inedito gusto alla repressione. Ed è sciocco pensare che scomparirà così come è arrivato, magari appena dopo Pasqua, se e quando riprenderemo a vivere come prima.
Oggi più che mai è evidente che il valore sacro della democrazia persiste ed è unanimemente condiviso solo finché va tutto bene. Finché le nazioni sono ricche e floride, finché gli algoritmi del libero mercato circolano indisturbati, finché la povertà e le malattie si diffondono solo in certi luoghi del mondo.
Com’era prevedibile, alla fine i protagonisti del film citato all’inizio cascano appieno nello schema che per primi avevano sottovalutato. Quello che era cominciato come un gioco, si trasforma in un epilogo disastroso. La fragile credenza su cui si appoggiavano viene dolorosamente smentita dai fatti.
La dittatura affonda le sue radici ben più in profondità di quel che pensiamo. La negazione dei diritti e l’accentramento del potere sono riflessi incondizionati e primitivi della mentalità umana, più che mai in circostanze minacciate da eventi che non possiamo controllare o prevedere.
Non deve capitare che, approfittando dell’emergenza sanitaria ed economica, oltre che dello stato d’animo di instabilità delle persone, si ritorni a professare una rinnovata urgenza di autoritarismo, concedendo ai leader politici di abusare delle proprie mansioni governative, com’è successo in Ungheria.
Né possiamo tollerare che, per pretese di sicurezza, lo stato d’eccezione diventi la condizione di normalità, arrivando a sostituire completamente quella precedente: a quel punto concorreremo con gli stati asiatici per la perdita di ogni beneficio democratico e assisteremo alla totale disfatta della dimensione umana, oltre che politica.