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La stessa lotta, la stessa ragione

Storie di donne per i diritti umani

Con questo libro Riccardo Noury ci trasporta in un viaggio in cui le strade sono i volti dell’attivismo e la meta, o meglio, il traguardo è un punto oltre l’orizzonte. È così lontano, perché la lotta per la libertà di espressione, di credo, di istruzione e di vivere la propria vita come si vuole, non è così scontata. Per lo meno, non in tutti i paesi.

Ed è così che attiviste come Sarah Hegazi, Marielle Franco, Loujain al-Hathloul, Martine Landry, Marinel Ubaldo, Yasaman Aryani ecc…, sono soltanto alcune delle tantissime voci che si fanno sentire da tutti gli angoli del mondo. Un mondo che, purtroppo, non ha ancora imparato che siamo tutti uguali, nessuno escluso. Che tutti abbiamo il diritto di vivere in un mondo migliore senza aver paura di mostrarci per come siamo. 

L’autore riporta a fine libro la Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata e proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui vengono espressi i diritti inalienabili, gli stessi diritti che non sempre sono garantiti. 

Tre volti, tre donne 

Ed è così che Fatima Khalil venne uccisa a ventiquattro anni a Kabul il 27 giugno 2020 perché esponente della Commissione nazionale indipendente per i diritti umani in Afghanistan; uccisa perché -cito l’autore- “così lontana da quel modo orientalista di vedere le donne afgane: inburqate a riprova dell’arretratezza di un sistema religioso e culturale, oppure deburqate a dimostrazione che alla fine sono state conquistate dai nostri valori vincenti”.

Fatima nacque in un campo per rifugiati del Pakistan, sesta figlia di due ex insegnanti, e riuscì a conseguire la doppia laurea in Antropologia e in Studi sui diritti umani. Il suo sogno era diventare ambasciatrice, ma “nel suo Paese le eccellenze finiscono in carcere se non, peggio, al cimitero”. 

Ed è così che Marielle Franco è stata uccisa la sera del 14 marzo 2018 a Rio de Janeiro di ritorno da un dibattito pubblico; l’hanno uccisa dei sicari addestrati perché impegnata in favore dei diritti umani. Marielle era appena stata nominata relatrice della commissione istituita dal consiglio comunale per monitorare l’intervento federale nelle questioni cittadine di pubblica sicurezza; ultimo di una serie di impegni per i diritti dei gruppi emarginati, dai giovani neri delle favelas alle donne, dalle persone lgbtqi+ ad altre comunità oppresse.

L’autore ricorda il suo incontro con Mônica, la compagna di Marielle, e racconta del dialogo avuto con lei in cui annunciò “che avrebbe portato avanti la lotta fino a quando non sarebbe arrivata la risposta alla domanda: Chi ha ordinato l’omicidio di Marielle?” E quella risposta non è ancora arrivata, sebbene siano stati arrestati i sospettati dell’esecuzione materiale.  

Ed è così che Sarah Hegazi ha deciso di togliersi la vita il 14 giugno 2020 a Toronto, nell’esilio canadese nel quale era stata costretta a rifugiarsi. Era una rifugiata perché esponente della comunità lgbtqi+ egiziana, in un paese dove le persecuzioni avvengono da parte di “un potere che non manca di stigmatizzare i desideri e le passioni ricorrendo spesso alle accuse di depravazione, blasfemia, atti immorali e promozione della devianza sessuale”.

Tutto ebbe inizio il 22 settembre 2017 durante il concerto della band Mashrou’ Leila a Il Cairo, quando Sarah e altri spettatori aprirono e sventolarono la bandiera arcobaleno. Un atto di solidarietà conclusosi con l’arresto e poi l’incarcerazione: insulti, violenza sessuale e pestaggi. Passò tre mesi lì di cui i primi nove giorni in isolamento con lo stesso schema ripetutosi più volte: soprusi, violenza, torture.

Una volta uscita su cauzione, dovette passare del tempo in un ospedale psichiatrico e più andava avanti più perdeva la speranza delle cure.
“Questa è la violenza che mi è stata fatta dallo Stato, con la benedizione di una società religiosa per sua stessa natura”.  Alla fine la decisione di togliersi la vita lasciando il messaggio che l’autore riporta per intero: 

“Ai miei fratelli e alle mie sorelle. Ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita, perdonatemi. 
Ai miei amici. L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere. 
Al mondo. Sei stato estremamente crudele, ma io perdono”.

Una lotta in corso

Parole pesanti, parole che fanno riflettere. Tre vite dedicate alla difesa dei diritti umani, tre vite stroncante. Tre donne che sono state uccise da un sistema patriarcale che schiaccia la spinta di libertà e innovazione.

Non sono le sole; l’autore ci riporta di altre attiviste che hanno continuato la lotta al sistema e che sono state arrestate per averlo fatto; altre donne che in questo momento stanno lottando e aiutando altre donne e comunità oppresse dal sistema e dalla pandemia in corso.

E come non ricordare Daphne Caruana Galizia -di cui l’autore non parla, ma ricorda nell’introduzione con grande affetto-, la giornalista di Malta uccisa il 16 ottobre 2017 perché aveva individuato il punto nevralgico in cui politica, economia, corruzione e criminalità si incontravano.

È proprio a lei che viene dedicato il libro, o meglio, un mondo fatto dei volti dell’attivismo. 

Il globo dipinto da Noury è proprio quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma che non vogliamo accettare. È il mondo che nega libertà e diritti. È il mondo che permette soprusi, violenze e torture. È il mondo che deve cambiare.