Quando ci troviamo davanti la parola “schiavismo” ci viene subito in mente l’età del Colonialismo nell’800 studiata in storia al quarto anno delle superiori. Ci ricordiamo di quelle foto, stampate sul manuale, che illustrano decine di braccianti affaticati nelle piantagioni di cotone, di caffè, di zucchero e tabacco. Se ci impegniamo, riusciamo anche a delineare i contorni di una figura che sovrasta le schiene ricurve dei contadini: il sorvegliante. Comunque, a questo punto sarebbe facile, in un attimo, dimenticare le espressioni di fatica, le fronti corrugate, imperlate di sudore. Tanto ormai appartengono al passato. Invece non possiamo. Perché il capitolo dello sfruttamento non ha mai visto la parola fine. Quello che è accaduto nel passato, ce lo ritroviamo oggi, proprio sotto i nostri occhi, a neanche 50 km da Torino.
Lo sradicamento del lavoro stagionale
I prodotti ortofrutticoli che ogni giorno consumiamo, provenienti dal Piemonte, li raccolgono poco meno di 10000 lavoratori stagionali, italiani e stranieri. E tra questi apparentemente non c’è nessuna differenza, se non che gli italiani abitano nelle proprie case, mentre gli stranieri sono costretti a trasferirsi, durante l’anno, da un campo di accoglienza all’altro per seguire le stagioni della raccolta: in inverno al sud, nei campi di Rosarno, per gli agrumi; in estate al nord, nel Cuneese, per mele, kiwi, pesche e mirtilli, rimanendo anche in autunno, per la vendemmia. Trattandosi di un lavoro stagionale, le giornate lavorative sono molto lunghe: circa 9-10 ore al giorno, e la paga, anche per quelli più fortunati, non supera i €5 all’ora. Questa è la situazione standard.
La bassa retribuzione sfocia in lavoro gratuito
Lo sfruttamento avviene quando il datore di lavoro non dichiara in busta paga tutte le effettive ore trascorse nei campi. Questo si verifica molto spesso e perciò è diventata la prassi normalmente riconosciuta dagli stessi lavoratori: questi ultimi, pur consapevoli di aver faticato per un tempo ben più ampio, accettano in silenzio quanto viene registrato sulla carta: perché? Ribellarsi sarebbe darsi la zappa sui piedi da soli, passando per lavoratori agitati che nessuna azienda agricola accetterebbe per sé.
Gli strappi del sistema economico
La Coldiretti ( Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti) dichiara che le stesse aziende agricole si trovano in difficoltà con il mantenimento dei costi di produzione. Il problema risiede nella concorrenza dei prodotti di mercato estero. Quasi 1 prodotto alimentare su 5 proveniente dall’estero non rispetta le norme in materia di tutela della salute, dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Questo porta i produttori locali a competere con prezzi più bassi, per avvicinarsi ai quali è necessario ridurre i costi di produzione. E tra questi, naturalmente, c’è la manodopera. Ed ecco che, in queste pieghe del sistema produttivo, si infiltrano titolari di cooperative non ben identificate, che propongono manodopera a basso costo.
Le uniche residenze disponibili

Ma dove risiedono le migliaia di persone che ogni estate si trasferiscono nel Cuneese? I cittadini non affittano le proprie case e in ogni caso il prezzo dell’affitto sarebbe troppo alto. Non resta che ammassarsi in capannoni, alcuni anche pericolosi e non riconosciuti, altri gestiti da cooperative. Un esempio di centro di accoglienza è il PAS, Prima Accoglienza Stagionali. Si tratta di una vecchia caserma nel Saluzzese convertita in dormitorio, che però trabocca di persone, costrette anche ad accamparsi in un campeggio fatiscente, appena fuori dal centro: il Foro Boario. All’interno del PAS la vita scorre con grande spirito comunitario, con alcuni che si improvvisano barbieri, sarti e venditori di generi di prima necessità. I posti letto sono poco meno di 400 e nel piazzale ci sono container adibiti a servizi igienici, spesso sovraffollati, perché impiegati anche da persone esterne al PAS. Prima del PAS, ristrutturato nel 2018, i lavoratori si stabilivano in baraccopoli sprovviste di acqua e qualunque altro servizio.
Quando i lavoratori diventano caporali
Ad aggravare la situazione si aggiunge il fenomeno del caporalato: si tratta di lavoratori che vengono pagati non solo dai propri connazionali per ottenere un posto nelle aziende agricole, ma anche dagli imprenditori stessi, perché tengano le bocche chiuse sulla condizione dei lavoratori. A volte ricorrendo anche alla violenza. Non c’è poi tanta differenza rispetto a quei sorveglianti che abbiamo ricordato all’inizio. Lo sfruttamento che si consuma alle porte del capoluogo piemontese merita tutta l’attenzione con cui abbiamo considerato il lavoro nelle piantagioni, con una punta in più di rimpianto, per aver lasciato trascorrere due secoli e aver permesso che situazioni di tal genere si ripetessero ancora.