Nomadland ha vinto agli Oscar nelle categorie di miglior film, miglior regia e miglior attrice protagonista. La pellicola è stata diretta da Chloé Zhao, già vincitrice ai Golden Globes nelle stesse categorie e del Leone d’Oro alla 77ª Mostra del Cinema di Venezia. Con questa vittoria è diventata la prima donna asiatica a vincere alla regia.
La vita on the road
Il film è l’adattamento cinematografico del libro della giornalista Jessica Bruner, “Nomadland- Un racconto d’inchiesta”, che tratta dei “nuovi nomadi statunitensi”, cioè tutte quelle persone che, dopo la recessione iniziata nel 2008, hanno deciso di vivere on the road.
Ed è proprio ciò che fa Fern, la protagonista del film, intrepretata da Frances McDormand, la quale intraprende questo stile di vita. Vivere in questo modo significa allontanarsi dal sistema di vita a cui siamo abituati e adeguarsi a stare in stretto contatto con la natura, spostandosi e dormendo su van arredati con gli accessori necessari per il sostentamento quotidiano, spesso racimolando soldi con lavori stagionali e spostandosi in carovane.
La cinepresa ci scaraventa fin dalla prima immagine nel mondo dei nuovi nomadi tramite gli occhi di Fern, che inizia la sua vita on the road a seguito della morte del marito e della grande crisi che ha portato al fallimento di numerose aziende e industrie. Quel mondo non viene edulcorato, anzi, è uno schiaffo schietto, preciso e sincero di cosa significa intraprendere uno stile di vita del genere.
Frances McDormand riesce a portare sullo schermo un personaggio che accoglie lo spettatore in questo mondo faticoso e diverso dalla celerità al consumismo a cui siamo abituati. Fern si sposta con un van decisamente vecchio eppure riesce a cavarsela nonostante le mille difficoltà che incontra. Tali difficoltà spesso sono piccoli problemi a cui normalmente non faremmo neanche caso, ma che in certe condizioni fanno la differenza tra la vita e la morte.
Cambiare una ruota, un problema al motore, il riscaldamento che non funziona, sono elementi scontati e riparabili recandosi da un meccanico. Ma se questi problemi avvengono a un veicolo che funge da abitazione e in un contesto rurale in cui per spostarsi da una città all’altra ci vogliono ore, ecco che il piccolo problema diventa gravoso e vitale da sistemare al più presto.
Procedendo in questa direzione verrebbe naturale porsi la seguente domanda:
perché vivere in questo modo se è tanto faticoso?
Non penso ci sia una vera a propria risposta, tuttavia si possono seguire alcuni ragionamenti.
Innanzitutto, molte di queste persone sono state costrette a vivere in questo modo a seguito della grande recessione: molte aziende sono fallite e diverse famiglie si sono ritrovate a non poter pagare le bollette. Nel film, infatti, diversi personaggi, tra cui quello di Linda May (che interpreta se stessa) spiegano che i soldi della pensione, nonostante anni e anni di lavoro e sacrifici, erano insufficienti per poter continuare a rimanere nelle proprie abitazioni, se non continuando a indebitarsi. Allora, le soluzioni erano spesso due: porre fine alla propria vita o prenderla in mano e tentare la strada on the road. Una vita fuori da una società che ha emarginato chi non era più necessario nella catena lavorativa; una vita lontana dal consumismo e dal capitalismo.
I’m not homeless. I’m just houseless
Negli occhi delle altre persone c’è un giudizio intrinseco nei confronti dei nuovi nomadi. Eppure questi ultimi abbracciano, oserei direi felicemente, lo stile di vita intrapreso, consapevoli dello stacco che c’è tra loro e il mondo.
Questa peculiarità è evidente nella frase succitata: I’m not homeless. I’m just houseless. Fern pronuncia queste parole appena incontra la figlia di una sua amica. Tali parole sono significative perché evidenziano la scelta di vivere diversamente e non per questo essere homeless, ma soltanto senza una casa immobile.
Il contrasto tra il van che si sposta e la casa che rimane ferma è un’immagine pregnante che accompagna due stili di vita antitetici: la velocità di avere tutto a portata di mano e la lentezza di uno spostamento che può godere della sublimità della natura.
La cancel culture in Cina
Sulle principali testate cinesi non c’è traccia di Nomadland e così di Chloé Zhao, originaria di Pechino.
Stando alle ultime notizie, la Cina avrebbe deciso di cancellare il film e i contenuti affini a seguito di alcune dichiarazioni della regista in un’intervista rilasciata per Filmaker Magazine nel 2013, in cui avrebbe descritto la Cina come “un posto in cui ci sono bugie ovunque” ( “…being in a place where there are lies everywhere“).
I motivi di questa censura sono poco chiari, soprattutto perché il film critica e racconta la società statunitense e non quella cinese.
Curiosità sul film
La pellicola è stata girata con un taglio documentaristico, sebbene non sia un documentario. La regista e la troupe hanno passato diverso tempo su un van in giro per i luoghi di ripresa per rendere l’esperienza cinematografica ancora più realistica. Gli attori hanno recitato senza una vera a propria sceneggiatura, ma interagendo istantaneamente con le varie persone che continuano a condurre questo stile di vita.