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Pandora Papers: un nuovo scandalo sui paradisi fiscali

Milioni di documenti riservati, i "Pandora Papers", smascherano la ricchezza nascosta di politici, imprenditori, artisti e mafiosi.

Più di 600 giornalisti provenienti da 150 testate hanno lavorato per analizzare il contenuto di circa 12 milioni di documenti, immagini ed e-mail riservate che svelano l’esistenza di più di 29.000 società offshore con i nomi dei loro reali proprietari, tra cui leader mondiali, funzionari statali, artisti, imprenditori e mafiosi. Li hanno denominati “Pandora Papers” e informazioni divulgate coprono un periodo di 25 anni, dal 1996 al 2020.

Il termine offshore fa parte ormai da tempo del nostro vocabolario e per molti è sinonimo di illegalità, ma tecnicamente le cose non stanno esattamente così.

 

Che cos’è una società offshore?

Una società offshore (o società scudo, società schermo, società ombra) è un soggetto giuridico che nasce in una giurisdizione a fiscalità agevolata, protetto da una legislazione statale specifica che garantisce uno status di esenzione fiscale totale o parziale. La tipologia più diffusa è la International Business Company (IBC), cioè una società creata per fare affari con i non residenti del Paese in cui essa ha sede legale, dove si applica il cosiddetto regime fiscale territoriale, in base al quale individui e imprese vengono tassati soltanto sulle fonti di reddito generato internamente, ma non sui profitti provenienti da attività estere. Non tutte le società offshore presentano, però, la stessa struttura e organizzazione, ma possono avere caratteristiche diverse.

 

Queste società sono legali?

Con i Pandora Papers siamo di fronte all’ennesimo scandalo finanziario collegato all’esistenza di società e conti offshore di cui i ricchi e i potenti del Pianeta si servono per la gestione di attività illecite come il riciclaggio di denaro e l’evasione fiscale.

Eppure, tali società, entro certi limiti, non sono illegali. Secondo il diritto societario internazionale esse non devono essere utilizzate come uno strumento per non pagare le imposte dovute, ma come un’opportunità per ottimizzare i propri investimenti e per tutelare il proprio patrimonio.

Pertanto, non è corretto associare automaticamente le società offshore ad attività illegali, ma sicuramente sono un segnale di scarsa trasparenza, dato che offrono una scappatoia ai più ricchi per non pagare tasse che invece i comuni cittadini sono costretti a pagare. Secondo una stima fornita dal Fondo Monetario Internazionale, almeno 600 miliardi di dollari vengono sottratti al fisco ogni anno.

A causa della segretezza del sistema offshore, non è possibile sapere quanta della ricchezza di cui si parla nei Pandora Papers sia legata all’evasione fiscale o ad altri crimini finanziari e quanta di essa sia invece dichiarata alle autorità competenti e proveniente da fonti legittime.

 

Un sistema di elusione fiscale sfruttato dai leader politici

Le informazioni raccolte rivelano che politici e funzionari statali influenti, anziché sforzarsi nell’implementare delle politiche volte a rallentare il flusso di denaro globale verso regimi fiscali più convenienti, ne ricavano vantaggi, nascondendo beni e capitali in società segrete e trust.

Tra questi, il re giordano Abdullah II diventato proprietario, tramite delle offshore, di ville lussuose a Malibu per un valore di 68 milioni di dollari. Gli investimenti risalgono, tra l’altro, agli anni della Primavera Araba in cui i giordani occupavano le strade per protestare contro la corruzione e la disoccupazione. Alcogal, lo studio legale che lavora per il re, ha dichiarato che l’uso di nominee directors, di prestanome, aiuta a preservare la privacy, evitando che l’identità del principale ultimo possa essere pubblicamente accessibile”.

Nelle e-mail, i consulenti offshore usavano un nome in codice per il re: “You Know Who”, ovvero “tu sai chi“. I legali hanno anche affermato che in qualità di re di uno dei più poveri Paesi del Medio Oriente, Abdullah II avrebbe tutte le ragioni per non ostentare la sua ricchezza. È evidente, però, che tra la non ostentazione e l’occultamento della ricchezza ci sia una grossa differenza.

 

I casi europei

Spicca il nome del primo ministro ceco Andrej Babisproprietario di una società schermo che ha usato per acquistare una villa da 22 milioni di euro in Costa Azzurra. La vicenda ha generato un’indignazione diffusa tra gli elettori dato che Babis è a capo di un governo populista che ha costruito il consenso elettorale sull’impegno nella lotta alla corruzione e all’evasione fiscale e sulla promessa di restituire ai cittadini un Paese in cui poter fare affari ed essere felici di pagare le tasse.

Un altro caso eclatante riguarda il presidente ucraino Zelensky: autoproclamato “servitore del popolo”, per anni grazie a una offshore ha posseduto un’azienda di produzione e distribuzione di film che, una volta eletto, ha ceduto all’amico, nonché primo consigliere del presidenteSergey Shefir.

 

Coinvolto anche Tony Blair, ex primo ministro inglese

Lo scorso febbraio l’istituto di cui è fondatore, il Tony Blair Institute, proponeva come misure per contrastare la crisi pandemica un rialzo delle tasse sulle case dei più ricchi. Lo stesso Blair, in un intervento nelle West Midlands inglesi, si è schierato a favore dell’introduzione di norme più rigide per contrastare il ricorso ai paradisi fiscali.

Sconcertante dunque la notizia che nel 2017 Blair e sua moglie, Cherie, siano diventati proprietari di un edificio vittoriano da 8,8 milioni di dollari. Lo hanno fatto acquisendo la società delle Isole Vergini Britanniche (noto paradiso fiscale) che ne deteneva la proprietà. I documenti indicano che i coniugi Blair hanno comprato la società offshore che possedeva l’edificio dalla famiglia del ministro dell’industria e del turismo del Bahrain, Al-Zayani.

Acquistando le azioni della società anziché l’edificio, i Blair hanno beneficiato di un accordo legale che gli ha permesso di risparmiare più di 400.000 dollari di tasse sulla proprietà. Lascia abbastanza perplessi che i Blair e gli al-Zayani abbiano dichiarato di non sapere del reciproco coinvolgimento nell’affare.

 

Rispetto alle precedenti inchieste, i Pandora Papers scuotono di più l’opinione pubblica?

La lista di nomi è ancora molto lunga, ma è utile anche soffermarsi sul perché si ritiene che quest’inchiesta possa avere un impatto maggiore rispetto a quelle che l’hanno preceduta.

Un primo fattore da considerare è che la crisi economica e sociale scatenata dalla pandemia ha esacerbato le disuguaglianze e ha costretto molti Stati a indebitarsi. L’opinione pubblica globale non è disposta ad accettare “che ci perdano tutti perché in pochi ci guadagnano”, come affermato dal direttore dell’ICIJ Gerard Ryan. In questo momento l’attenzione è volta a condannare i meccanismi di elusione ed evasione fiscale che sottraggono finanze al pubblico. Soprattutto se attivati da chi ha tratto profitto dall’emergenza sanitaria o l’ha vissuta comunque da una posizione privilegiata.

 

Paradisi fiscali dietro casa

I documenti raccolti dall’ICIJ mettono in luce un altro aspetto: nell’immaginario collettivo i paradisi fiscali sono associati tendenzialmente a luoghi esotici, isole con spiagge paradisiache, come le Cayman, le Barbados, le Bahamas, Panama, ma l’industria offshore è attiva in ogni angolo del Pianeta ed è alimentata anche dalle principali democrazie occidentali.

Nell’ultimo decennio, infatti, il Sud Dakota e il Nevada si sono trasformati in leader del settore offshore, mentre Washington ha lavorato a politiche per limitare il traffico di capitali verso i paradisi fiscali “tradizionali”. A quanto pare, però, gli sforzi non erano orientati a porre fine ai sistemi di segretezza finanziaria, semmai erano volti a favorirne la crescita all’interno del territorio statunitense sostituendosi agli altri Paesi.

Lo dimostra il fatto che nel 2018 le Bahamas hanno promulgato una legislazione che richiede alle aziende e ad alcuni trust di dichiarare i loro veri proprietari a un registro del Governo. La Nazione insulare subiva la pressione di Paesi più grandi, compresi gli Usa, affinché facesse di più per bloccare gli evasori fiscali e i criminali dal sistema finanziario. Una legge che ha di fatto favorito uno spostamento di capitali dall’isola al Sud Dakota, meta sempre più appetibile per la creazione di conti e trust offshore.

 

I Panama Papers e i Pandora Papers

Va inoltre sottolineato che i Panama Papers erano frutto di una fuga di informazioni da un singolo fornitore di servizi finanziari offshore, la società panamense Massack Fonseca, mentre i Pandora Papers raccolgono dati e documentazioni che derivano da ben 14 società finanziarie specializzate nella fornitura di asset offshore e che evidenziano la centralità di grandi banche d’investimento come Morgan Stanley o di prestigiosi studi legali americani ed europei nella creazione di società ombra.

 

Come sta tentando la governance globale di arginare il problema del ricorso ai paradisi fiscali?

Innanzitutto, i Governi e le organizzazioni internazionali devono preoccuparsi di colmare quei buchi legislativi che i paradisi fiscali sfruttano per attirare capitali.

All’interno dell’Unione Europea, ad esempio, gli stati membri sono tenuti a uniformarsi a una serie di standard macroeconomici, ma permangono forti differenze nella tassazione dei redditi, in particolare in quella dei redditi delle società. I Paesi piccoli, dunque, hanno un vantaggio nell’abbassare la propria tassazione. La piccola perdita di gettito sui profitti delle società già operanti nel Paese – dovuta al calo della tassazione – è più che compensata dall’afflusso di investimenti dal resto del mercato comune.

Al G7 e al G20 economico di quest’anno ha trovato spazio la proposta della segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen: l’introduzione di una global tax del 15% sugli utili delle multinazionali con un fatturato superiore ai 750 milioni all’anno. Per le multinazionali più grandi e più redditizie, invece, almeno il 20% degli utili verrà tassato dove le aziende realizzano le vendite e non dove hanno sede legale. Tali provvedimenti dovrebbero servire da deterrente per le multinazionali che intendono dirottare gli utili nei paradisi fiscali

Una critica alla proposta è la ridotta aliquota scelta. C’è infatti chi sostiene che le multinazionali potrebbero continuare a traslocare i propri profitti in paradisi fiscali che permetteranno loro di pagare al massimo il 15%, al posto delle più alte aliquote nazionali.