Rivoluzionari del proprio tempo, dall’aria burrascosa e meditabonda, confinati da secoli di storia, ma uniti da una singolare sensibilità nel celebrare gli ultimi e i diseredati.
Li immaginiamo così, Caravaggio e De Andrè, capaci di pescare nei bassifondi dell’umanità per trarne un istante di autentico realismo, privato di ogni idealizzazione e decoro.
Sin dalla comune e ostinata contestazione delle regole, possiamo tracciare una linea sottile in grado di colmare la distanza degli anni e saldare le opere dei due artisti. Così, in un complesso gioco di contaminazioni, l’arte del pittore seicentesco viene svelata dalle note del cantautore genovese. Simmetricamente, le parole di De Andrè sembrano colorarsi disponendosi in modo ordinato sulle tele di Caravaggio.
E se l’unicità della loro arte non può trovare risposte razionali che non la allontanino dal sentimento, allora saranno gli artisti stessi, in questa relazione, a rivelarsi vicendevolmente.
Di ingegno torbido e contenzioso, con queste parole il biografo Giovanni Bellori descrive il temperamento di Caravaggio. Facevamo una vita dissennata, andavamo a caccia di amici terribili […] i nostri genitori erano terrificati da questo tipo di vita, non si faceva niente e si dormiva regolarmente sino alle due del pomeriggio: così Paolo Villaggio racconta gli anni della giovinezza vissuti al fianco di De Andrè. Indagatori delle periferie del sentire umano, i due artisti condividono un’indole irruenta, che li porta precocemente a prendere le distanze dal buoncostume borghese. A contatto con le luci e le ombre dei sobborghi cittadini, vivono le storie degli emarginati, di quella ricca antologia di personaggi, protagonista dei loro dipinti e canzoni.
È nei vicoli della Roma pontificia che abita quella parte di umanità apertamente respinta dalle maggioranze e che avrà raffigurazione nelle opere di Caravaggio. È nelle creuze di Genova che abita una popolazione composta da prostitute, disertori e minoranze etniche, che avranno voce nelle ballate di De Andrè.

Dissacratore dei dogmi della Chiesa cattolica, Caravaggio dipinge nel 1604 Morte della Vergine per Santa Maria della Scala, a Trastevere.
L’iconografia impone che la Madonna sia rappresentata mentre si abbandona a un sonno ultraterreno, con le mani composte sul ventre, circondata dagli apostoli miracolosamente scesi sulla Terra per accogliere l’anima della defunta.
Disteso su un tavolaccio da obitorio, il corpo della Vergine giace invece abbandonato, con le caviglie gonfie e il ventre avvolto da una veste rossa; come quello di una giovane prostituta che pochi anni prima è riemersa dalle acque del Tevere. Annegata, forse anche suicida.
Caravaggio sembra riversare su un essere divino il mistero dell’esistenza di ogni uomo: ingiustizia, dolore, cieca incomprensione. Così, direbbe De Andrè, la Madonna si abbandona “di fronte all’estrema nemica” e “non vale coraggio o fatica / non serve colpirla nel cuore / perché la morte mai non muore”(1).
Lungi dall’essere sublimata, la morte della Vergine è fisica, terrena, cruenta; e osservando il dipinto sembra di ascoltare il cavalleresco congedo di Faber che recita “Madonna che in limpida fonte / ristori le membra stupende / la morte non ti vedrà in faccia / avrà il tuo seno e le tue braccia”(2).
La posizione di De Andrè nei confronti della Chiesa si dimostra spesso provocatoria, tanto che l’atteggiamento ostentato contro il bigottismo e le gerarchie ecclesiastiche gli assicura numerose accuse di anticlericalismo. Ricordiamo come esempio gli ultimi, dissacranti versi di Bocca di Rosa, in cui una prostituta sfila in processione vicino alla Vergine attraverso il paese di Sant’Ilario: “e con la Vergine in prima fila / e Bocca di Rosa poco lontano / si porta a spasso per il paese / l’amore sacro e l’amor profano”(3).

Un accostamento, quello tra sacro e profano, evidente anche in un altro capolavoro del pittore del Seicento.
Commissionato nel 1596 dal Cardinal Del Monte, Bacco riesce a conciliare la visione pagana con quella cattolica. Il dio del vino e dell’ebrezza, nudo con una corona di vite sul capo, sembra invitare lo spettatore a bere il calice di vino. È, in realtà, la trasfigurazione del Cristo Redentore che offre il sangue di Dio come simbolo di sacrificio. Ma non basta; il fanciullo regge nella mano destra un fiocco in corrispondenza dell’ombelico, traccia del restaurato legame tra Dio e l’uomo, che condividono un unico corpo sotto il segno dell’ homo copula mundi neoplatonico.
Mai artista prima d’ora aveva desacralizzato la figura divina, costringendola a un serrato dialogo con l’uomo. Mai un cantautore aveva così a lungo riflettuto sulla Fede, approdando infine a principi religiosi di carattere panteista, capace di superare i vincoli dell’amore sacro e dell’amor profano imposti dalla tradizione.
“Quando parlo di Dio lo faccio perché è una parola comoda, da tutti comprensibile, ma in effetti mi rivolgo al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo” : con queste parole Faber sembra contrastare la visione manichea dell’amore imposta dalla Chiesa, proponendo un Amore universale, che permea il cosmo e vince su tutto.
Si tratta dell’Amor vincit omnia realizzato da Caravaggio tra il 1602 e il 1603: un cupido alato tiranneggia nella scena imponendosi come unico attore. E lo immaginiamo recitare, in un’irriverente litania, le parole della decima egloga (4) di Virgilio: “Amor vincit omnia, et nos cedamus amori”. Nulla si nasconde nelle tenebre, solo la luce, Amore, è protagonista.

Così, il metaforico scontro tra luci abbacinanti e oscurità trova espressione nella musica di De Andrè, in cui l’infinito Amore di Gesù trionfa sulla morte: “ma inumano è pur sempre l’amore / di chi rantola senza rancore / perdonando con l’ultima voce / chi lo uccide fra le braccia d’una croce”(5).
Ciò che resta sulla croce, afferma Faber in Si chiamava Gesù, è un corpo come tanti altri, il corpo di un uomo chiamato Figlio di Dio ma incapace di fuggire al dolore e al lamento: nella Flagellazione di Cristo, ultimata nel 1608, Caravaggio, in un gesto di mirabile sintesi veristica, riesce a dare forma alla nostra immaginazione.

Ci pone davanti alla natura umana di un Cristo sofferente, circondato dalla notte, che lo confina al punto da renderlo immobile. L’immagine del figlio di Dio è talmente incarnata e umana nella sua condizione mortale che la vista di quel corpo morente cancella ogni idea di resurrezione. Ma la descrizione di quel miserabile, con la testa china, preda dei suoi aguzzini, viene offerta, ancora una volta, dalla poesia del cantante genovese: “E morì come tutti si muore / come tutti cambiando colore[…] Di Maria dicono fosse figlio / sulla croce sbiancò come un giglio”(6).
È questa la fine infelice riservata a chi De Andrè considerava il più grande rivoluzionario di tutti i tempi: un uomo che espiava sulla croce gli sforzi che aveva fatto contro gli abusi del potere, contro le autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. “Laudate hominem” grida l’autore nel canto liturgico che conclude La Buona Novella(7), un invito a lodare l’uomo non in quanto figlio di Dio, ma in quanto figlio di un altro uomo, quindi fratello. Non dissimile alla lunga schiera di “vinti” raffigurata e raccontata dai due artisti: “guardatela oggi, questa legge di Dio, / tre volte inchiodata nel legno: / guardate la fine di quel nazareno / e un ladro non muore di meno. / Guardate la fine di quel nazareno / e un ladro non muore di meno”(8).
Ma è Giuditta e Oloferne l’opera che si eleva a manifesto delle minoranze come turbamento dell’ordine imposto dagli oppressori. Caravaggio sceglie di raccontare l’episodio biblico della decapitazione del condottiero assiro Oloferne. L’eroina ebrea Giuditta, allegoria della salvezza concessa da Dio al suo popolo, è rappresentata nel momento di massima tensione del dramma; altera, giovane, pura, Giuditta è chiamata
a punire il responsabile di tanta sofferenza, ora ritratto, nei contrasti tonali della scena, tra la vita e la morte. Giuditta è l’affermazione delle libertà personali, capace di concentrare in un solo gesto anarchico, la volontà di riscatto dei molti a cui non è dato ascolto. È personificazione della vendetta privata, non troppo lontana dagli intenti fallimentari e giustizialisti del Bombarolo(9) di De Andrè.

Ma soprattutto, Giuditta è la testimonianza della libertà espressiva dell’artista, è il “sentirsi vivi” attraverso cui si esprime il Credo artistico. Per questo sentiamo risuonare gli intenti di Giuditta nelle note del Suonatore Jones(10), con le quali si conclude questa riflessione.
Giuditta non è un’assassina, uccidere non è consuetudine, come per Jones la musica non è un mestiere. È un’alternativa. Semplice contingenza. E ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà dell’artista.
In un vortice di polvere
Gli altri vedevan siccità
A me ricordava
La gonna di Jenny
In un ballo di tanti anni fa
Sentivo la mia terra
Vibrare di suoni, era il mio cuore
E allora perché coltivarla ancora
Come pensarla migliore
Libertà l’ho vista dormire
Nei campi coltivati
A cielo e denaro
A cielo ed amore
Protetta da un filo spinato
Libertà l’ho vista svegliarsi
Ogni volta che ho suonato
Per un fruscio di ragazze
A un ballo
Per un compagno ubriaco
E poi se la gente sa
E la gente lo sa che sai suonare
Suonare ti tocca
Per tutta la vita
E ti piace lasciarti ascoltare
Finii con i campi alle ortiche
Finii con un flauto spezzato
E un ridere rauco
E ricordi tanti
E nemmeno un rimpianto
- De Andrè, Volume 1, 1967, La morte
- Op. cit. La morte
- De Andrè, Volume 1, 1967, Bocca di rosa
- Publio Virgilio Marone, Bucoliche (egloga X, 69), 38 a.C.
- De Andrè, Volume 1, 1967, Si chiamava Gesù
- Op. cit. Si chiamava Gesù
- De Andrè, La buona novella, 1970, Laudate hominem
- De Andrè, La buona novella, 1970, Il testamento di Tito
- De Andrè, Storia di un impiegato, 1973, Il bombarolo
- De Andrè, Non al denaro, non al denaro, né al cielo, 1971, Il suonatore Jones