Siamo nella regione curda di Afrin, nel Rojava, zona occupata da formazioni ribelli filo-turche e dalle milizie jihadiste alleate di Ankara. Un video diffuso dalla tv curda Rudaw mostra otto donne imprigionate all’interno della stazione di polizia di Afrin, quartier generale dell’Esl (Esercito Libero Siriano). Si tratta probabilmente di combattenti curde, membri delle unità di protezione impegnate da anni nella lotta per la sopravvivenza del proprio popolo, perennemente sotto attacco. Le recluse appaiono nude e maltrattate, probabilmente vittime di abusi e torture inflitti dai miliziani della divisione Hamza, operante nella zona con il sostegno della Turchia. La città è passata con violenza sotto il controllo dell’Esl nel marzo 2018, dopo un’offensiva durata due mesi contro l’Unità di Protezione Popolare curda.
ABUSI DIFFUSI E DETENZIONI ARBITRARIE
Già da tempo le organizzazioni per i diritti umani hanno riscontrato nelle aree siriane sottoposte al controllo turco abusi diffusi da parte dei miliziani dell’esercito,comprese detenzioni arbitrarie, sparizioni, confische di proprietà. Nonostante il governo turco abbia dichiarato di voler indagare sui casi di violazione di diritti civili, le truppe alleate sono state esonerate da qualsiasi responsabilità, rendendo così impossibile ogni pretesa di giustizia.
Questo conferma l’assenza di qualsiasi forma di controllo e di legalità nella zona Rojava, ormai pedina del sanguinoso risiko messo in atto da Erdogan e alleati. Anche la comunità internazionale ha mostrato scarso interesse alla vicenda e le proposte di istituire un tribunale ad hoc per perseguire i crimini di guerra perpetrati nei confronti della popolazione sono rimaste a oggi inascoltate.
L’ACCUSA DI LEGAMI COL PKK
Le detenute sono sospettate di aver collaborato con il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, considerato da sempre acerrimo nemico della Turchia. Il PKK era impegnato al fianco delle forze di difesa curde nella lotta contro gli integralisti dello Stato Islamico, prima di essere bandito dalle forze filo-turche giunte nel territorio. Questa accusa basterebbe secondo l’Esl a giustificare la prigionia delle combattenti, nonostante la polizia militare non abbia alcuna autorità giudiziaria che giustifichi questo abuso di potere.
Il silenzio della Turchia appare maggiormente significativo, rendendo ancor più evidente l’obiettivo delle campagne militari: ripulire la zona dalla popolazione curda. Questo intento ha avuto conferma con l’ulteriore volontà di esiliare la comunità religiosa curdo-yazida presente da anni nella regione. Infatti, dopo la persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico in Iraq e in altre aree della Siria, migliaia di yazidi sono stati costretti a fuggire da Afrin abbandonando le loro case.
UN INSULTO ALLE DONNE DI TUTTO IL MONDO
L’opinione pubblica e i partiti curdo-siriani hanno definito la taciuta prigionia forzata delle combattenti “un insulto rivolto a tutte le donne” e richiedono l’intervento delle Nazioni Unite. Quest’ultime hanno stabilito che “sussistono motivi ragionevoli per credere che membri dell’Esercito libero siriano abbiano commesso omicidi e saccheggi nei territori conquistati”.
Le donne curde sono da anni simbolo di libertà e riscatto sociale di un popolo continuamente sottomesso e schiacciato. Da sempre in prima linea per difendere la loro rivoluzione e per garantire un futuro al proprio popolo,esse si trovano ora più che mai in una situazione di rischio. E appare significativo osservare come anche in questa occasione la storia poco o niente ha insegnato: modelli simili, attori simili, stessa mentalità. Le milizie estremiste “purificano” le aree della Siria attraverso la forza bruta e la commissione di atrocità. E il mondo rimane a guardare in silenzio i resti inceneriti di una libertà bruciata.