Aveva sempre rifiutato la scorta, non perché non si sentisse minacciato ma per non lasciare “mogli vedove e figli orfani”, non voleva che si verificassero lutti per causa sua.
È la mattina del 21 settembre 1990 quando un’utilitaria amaranto che percorre la SS 640 Caltanissetta-Agrigento all’altezza di un viadotto viene raggiunta e speronata da un’altra macchina. Il passeggero dell’utilitaria scende, scavalca il guardrail e corre giù per una scarpata in una fuga ormai disperata. È già ferito, cade, viene freddato dal killer.
Il giudice Rosario Livatino venne ucciso mentre si recava come al solito al tribunale di Agrigento, presso il quale prestava servizio. Si stava occupando da anni di casi scottanti, legati alla mafia agrigentina. Se è interessante la figura del giudice, ancora più affascinante è la statura umana di quest’uomo, che è più conosciuto come il “giudice ragazzino”, sia per la giovane età (non aveva ancora compiuto 38 anni), sia per una definizione nata da una infelice esternazione del presidente Cossiga un anno dopo l’omicidio.
Rosario Livatino nasce nel 1952 a Canicattì, figlio unico di Vincenzo Livatino, impiegato comunale, e di Rosalia Corbo. È un bambino allegro, ma diligente e molto serio, frequenta il liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, si impegna in Azione Cattolica e in ogni ambito dimostra grande preparazione e serietà, tanto che al liceo capitava che a volte si privasse dei minuti della ricreazione per aiutare qualche compagno in vista dell’imminente interrogazione. Nel 1971, dopo la maturità, si iscrive a giurisprudenza a Palermo, dove si laurea con lode nel 1975. Nel 1979 supera il concorso e diventa sostituto procuratore ad Agrigento, nel 1989 è giudice a latere.
La personalità
Per cinque anni abbiamo studiato fianco a fianco, seduti nello stesso banco; […]. Era un ragazzo eccezionale pur nella normalità degli atti quotidiani; con il suo silenzio e la sua tranquillità sapeva rendere semplici e naturali le cose che, a primo acchito, sembravano difficili o impossibili. Mai che io ricordi un solo gesto che non fosse improntato alla gentilezza e all’educazione; mai una sola volta che il suo viso abbia avuto un’espressione di sdegno o d’ira.
Così lo ricorda un suo compagno di scuola, ed effettivamente è ciò che emerge da ogni testimonianza: non c’è nessuno che non sottolinei l’intelligenza, la bontà d’animo, la discrezione e specialmente l’educazione di Livatino. Non si tratta di un giovane che ha ben imparato la lezione o che ubbidisce ai valori imposti dai genitori, ma di un uomo dall’anima splendida, candida e pieno di umanità, benché molto riservato e con un fortissimo senso del dovere.
La fede
Dalle agende che il giudice ha lasciato emerge una fede intima, molto profonda e matura che si è rafforzata negli anni. Una fede vissuta sul serio e in ogni ambito. Livatino non era certo uno dei tanti che sono cristiani solamente in chiesa. Nella sua opinione il giudice cristiano deve in primis dare un’anima alla legge, poiché non è facile il compito di chi deve decidere. In uno dei suoi due interventi pubblici, la conferenza Fede e diritto spiega: “[…] Decidere è scegliere e, a volte, scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Il martire
“Martire della giustizia e indirettamente della fede” lo definì il papa nel 1992. La causa prima della morte fu la difesa della giustizia, l’affermazione del diritto contro il sopruso, la difesa dello Stato. “Indirettamente” quello zelo è da attribuire alla fede, fede nel Vangelo e nella giustizia, una fede talmente radicata e forte da arrivare al sacrificio estremo. Per questa fede eroica il 29 ottobre 2021 per la prima volta ricorrerà la memoria del beato Rosario Livatino.