La Sicilia ha deciso: il nuovo governatore della regione sarà Nello Musumeci, il candidato della coalizione di centrodestra. Prima di lanciarci in arditi commenti o analisi azzardate, è innanzitutto opportuno riportare i numeri che hanno sancito la vittoria di Musumeci: forte del 39,9% dei consensi, l’uomo designato dalla destra unita come successore del presidente uscente Rosario Crocetta ha vinto, non senza faticare, il duello con il rivale Giancarlo Cancelleri, punta di diamante del Movimento 5 Stelle in Sicilia, che si è fermato al 34,6% dei voti. Ben più indietro è rimasta la sinistra, la vera sconfitta di questa tornata elettorale: Fabrizio Micari, sostenuto dal Partito Democratico, non è andato oltre il 20% (18,5%), mentre ancora peggio ha fatto Claudio Fava che, potendo contare sull’appoggio solo di Sinistra Italiana e di Mdp, non ha raggiunto nemmeno il 10% (6,2%).

Una prova di forza, quindi, dei tre partiti di destra – Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega (che in occasione delle votazioni siciliane ha cancellato la parola “nord” dal proprio nome)- che hanno dimostrato che, uniti, possono rappresentare una valida alternativa a PD e Movimento 5 Stelle. L’alleanza fra Berlusconi, Salvini e Meloni, però, deve ancora essere testata su scala nazionale, anche se il voto di domenica, ultimo vero test prima delle elezioni governative di marzo, può rappresentare un buon trampolino di lancio. Dal canto loro, i grillini possono esultare, in quanto si ritengono i “vincitori morali” – Beppe Grillo dixit- di questa tornata elettorale, grazie al buon risultato ottenuto dal loro candidato governatore, ma anche e soprattutto perché si sono confermati il partito che, da solo e fuori da ogni genere di coalizione, riesce ad attirare il maggior numero di voti. Il PD, invece, esce dal confronto con le ossa rotte, fortemente ridimensionato e consapevole che, se la situazione del centrosinistra a marzo si confermerà caotica come adesso, sarà davvero dura riconfermare la propria leadership governativa. Può invece parzialmente gioire l’ala più radicale della sinistra italiana che, con il suo candidato Claudio Fava, è riuscita ad ottenere una discreta quantità di voti, ma soprattutto ha fatto capire ai dem che senza alleanze e coalizioni a larghe intese non si può arrivare a governare il Paese. Menzione a parte merita il quinto candidato, l’indipendentista Roberto La Rosa, che si ferma allo 0.7% dei consensi e quindi rimane fuori dal Parlamento siciliano.

Il dato più preoccupante, però, è quello relativo all’astensionismo: oltre il 53% dei siciliani, infatti, non si è recato alle urne, disattendendo gli appelli ad andare a votare che erano stati lanciati all’unanimità da tutte le forze politiche. Lo scarso coinvolgimento popolare è figlio di una crescente sfiducia nei confronti della politica da parte della gente siciliana che, dopo essere stata guidata per anni da un governo regionale fallimentare, ha preferito stare a casa piuttosto che andare ai seggi ed esprimere le proprie preferenze. Tuttavia, l’astensionismo non rappresenterà mai la soluzione ai problemi di una regione. Non andando a votare, si sceglie deliberatamente di lavarsi le mani di quello che sarà il destino del Paese, non adempiendo così ai propri doveri di cittadino; inoltre, minore è il numero di votanti, maggiore è la possibilità di brogli, soprattutto in una regione come la Sicilia dove è forte il rischio di infiltrazioni mafiose nel mondo della politica. Non andare a votare non è un segno di protesta: viceversa, sarebbe molto più significativa una partecipazione di massa alle urne, facendo sentire la propria voce e facendo capire che il popolo siciliano ha voglia di rivalsa e ha desiderio di risollevarsi dopo anni bui, messaggio però che non è arrivato dopo le votazioni di ieri. Sotto questo punto di vista, a vincere, ancora una volta, non sono state le coalizioni o i singoli partiti, ma il volto oscuro e disonesto della Sicilia.
Nella giornata di domenica, però, non si è votato solo in Trinacria. Anche ad Ostia, infatti, popoloso sobborgo nella periferia della capitale, i cittadini sono stati chiamati alle urne. Per chi non fosse avvezzo alle questioni amministrative, il territorio di Roma Capitale è suddiviso in quindici Municipi, ciascuno dotato di un proprio “mini-sindaco” e di un proprio consiglio comunale: fra queste sezioni, sicuramente una delle più importanti è quella che prende il nome di “Municipio X di Roma“, comprendente, appunto, anche la cittadina di Ostia. È un’area densamente popolata, tanto che, se il decimo Municipio fosse un comune a sé stante, con i suoi 230.000 abitanti sarebbe la tredicesima città più grande d’Italia. Tuttavia ad Ostia, come spesso accade nelle periferie delle grandi città, degrado ed abbandono sono all’ordine del giorno: la popolazione ostiense vive in condizioni di miseria e povertà, vessata quotidianamente da uno Stato che non è in grado di controllare il territorio e dai clan della malavita locale, che amministrano a proprio piacimento questo quartiere dimenticato di Roma. Nel 2015, il consiglio comunale era stato sciolto e il Municipio X era stato commissariato per infiltrazioni mafiose, dopo che il mini-sindaco Andrea Tassone, a seguito dell’inchiesta su Mafia Capitale, era stato condannato a cinque anni di reclusione.

La votazione di ieri è stata ovviamente influenzata dagli ultimi trascorsi nefasti del Municipio di Ostia: il Partito Democratico, che a suo tempo aveva sostenuto Tassone, con il candidato Athos De Luca ha ottenuto la miseria del 13,61%, mentre Giuliana Di Pillo (Movimento 5 Stelle) e Monica Picca (centrodestra unito) hanno raggiunto rispettivamente il 30,21% e il 26,68%, garantendosi così entrambe il pass per il ballottaggio. Oltre al dato sull’astensionismo, anche qui molto, troppo elevato (e solo in parte giustificato dalle avverse condizioni meteo), il risultato che più sorprende e fa discutere è il 9% di voti che sono confluiti nella lista di Luca Marsella, candidato di CasaPound, partito di estrema destra e di matrice neofascista venuto alla ribalta negli ultimi anni. A Ostia, quindi, un partito di nicchia e spesso al centro di accese polemiche come CasaPound ha ottenuto solo il 4% dei voti in meno rispetto al ben più quotato PD: l’esito delle votazioni fa riflettere, soprattutto pensando al contesto in cui questi risultati sono maturati. Un tempo, infatti, era la sinistra, in particolare le sue correnti più radicali, a farsi portavoce dei malumori delle classi sociali più povere e disagiate, mentre adesso stiamo assistendo ad un progressivo sovvertimento degli equilibri sociopolitici: proprio nelle periferie operaie ed abbandonate a sé stesse, un tempo roccaforte dei partiti rossi, sta guadagnando terreno l’estrema destra, cavalcando l’onda del malcontento e marciando sugli errori commessi dagli avversari (e, viceversa, si stanno spostando verso sinistra, soprattutto verso il Partito Democratico, i voti di imprenditori e banchieri, un tempo fedeli al centrodestra). Forse è questo il risultato di tutta la tornata elettorale che più deve farci riflettere, sintomo di un cambiamento (in meglio o in peggio, non sta a me deciderlo) che avanza inarrestabile, anche se i grandi partiti sembrano non averne ancora preso coscienza.