Un altro muro per Trump, questa volta si erge dalle Hawaii. Il giudice federale Derrick K. Watson ha bloccato l’attuazione di un nuovo ordine esecutivo emanato dal Presidente USA per limitare l’accesso negli Stati Uniti ai cittadini di sei paesi: si tratta del cosiddetto “Travel Ban”.
Ma questa è solo l’ultima battaglia della “guerra” che si sta giocando da gennaio ad oggi tra The Donald e i giudici federali. Infatti, già due ordini esecutivi prima di questo non hanno avuto sorte migliore.
Conformemente alla sua campagna elettorale, Trump, dopo appena sette giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, emette il primo dei tre provvedimenti. È il 27 gennaio 2017 e il “Muslim ban” , anche se fra aspre polemiche, pone stringenti divieti e irrigidisce le già ferree regole sull’immigrazione negli USA. Nel dettaglio, il bando vieta il trasferimento di richiedenti asilo negli Stati Uniti per i successivi 120 giorni (quattro mesi) e coloro che hanno già ottenuto l’approvazione del Governo dovranno sostenere ulteriori controlli. La misura più dura riguarda i richiedenti provenienti dalla Siria; il decreto presidenziale impone, infatti, a tempo indeterminato il divieto di accoglienza per tutti i cittadini siriani con lo status di rifugiato. È una misura estremamente importante, soprattutto alla luce dei dati secondo i quali la Siria è il secondo paese per provenienza dei richiedenti che fanno domanda per entrare negli Stati Uniti. Dagli anni ’80 a oggi, gli Stati Uniti hanno sospeso l’accoglienza ai richiedenti asilo solo in un drammatico contesto, nei tre mesi successivi all’attentato alle Torri Gemelle. Con il primo “Muslim ban” viene drasticamente dimezzata la quota annuale di richiedenti che possono essere accolti nel Paese: si passa, infatti, dai 110mila sotto l’amministrazione Obama ai 50mila con Trump.

Non solo i richiedenti asilo sono coinvolti nel bando: i cittadini provenienti da ben sette Stati non potranno fare ingresso negli USA per i successivi 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto. I Paesi che dovranno aderire al divieto sono Iraq, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen, Paesi a loro volta coinvolti nelle vicende del terrorismo recente e a maggioranza musulmana, da qui il nome “Muslim ban”, sebbene il tycoon abbia provato a difendersi dichiarando che il bando non è volto contro i musulmani. Ma c’è un dettaglio che rende poco convincente la sua difesa: il primo “Travel ban” garantisce la priorità ai richiedenti che fanno parte di minoranze religiose in questi Stati. È facile intuire che potranno avvalersi di tale priorità i credenti cristiani ed è altrettanto evidente che è la religione il criterio discriminante in decisioni così importanti.
I Paesi che dovranno aderire al divieto sono Iraq, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen, Paesi a loro volta coinvolti nelle vicende del terrorismo recente e a maggioranza musulmana.
Il giudice James Robart ha accolto una causa presentata dallo stato di Washington e dal Minnesota contro l’ordine esecutivo deciso da Trump, provocando, così, una sospensione temporanea del bando. La sentenza del giudice Robart condanna due punti cruciali del bando: il divieto di ingresso per 90 giorni a carico dei cittadini provenienti dai sette paesi e i limiti all’accoglienza dei rifugiati per 120 giorni.
Ma la risposta della Casa Bianca non si è fatta attendere: il giorno seguente il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha presentato un ricorso contro la sentenza del giudice federale, chiedendo che questa venisse sospesa con un provvedimento d’emergenza. Il ricorso non è stato accolto, prolungando la sospensione del “Travel Ban” e aprendo una nuova fase dinnanzi a tre giudici in un processo ordinario. Ai primi di febbraio, all’unanimità i tre giudici d’appello hanno dichiarato di non accogliere il ricorso del presidente, con la motivazione che non è necessario un ripristino del “Muslim ban” per scongiurare danni irreparabili. Il presidente insiste sull’esigenza del divieto per difendere il proprio Paese dal terrorismo, sostenendo che tale decreto sia esclusivamente una decisione politica, pertanto non opponibile dai giudici.
Il presidente insiste sull’esigenza del divieto per difendere il proprio Paese dal terrorismo, sostenendo che tale decreto sia esclusivamente una decisione politica, pertanto non opponibile dai giudici.
Dopo solo sei settimane, per eludere un processo dinnanzi alla Corte Suprema , l’amministrazione Trump vara un nuovo “Muslim ban”, che sarebbe dovuto entrare in vigore il 16 marzo 2017. Questa seconda variante avrebbe bloccato per tre mesi l’ingresso del paese ai cittadini dei sette stati già interdetti dal primo “Travel ban”, ad esclusione dell’Iraq (quindi Siria, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen). La motivazione di Washington per aver escluso l’Iraq da questo decreto consiste nel fatto che l’Iraq sia un Paese governato in democrazia e estremamente impegnato nella lotta al terrorismo.
Nel bando-bis viene confermato il limite annuo massimo di 50mila rifugiati accolti, ma i rifugiati siriani sono equiparati a tutti gli altri rifugiati dei sei Stati a cui è posto il divieto; un divieto, quindi, non più a tempo indeterminato ma solo per i successivi tre mesi. Viene, inoltre, eliminata la parte che favoriva i cristiani nel bando precedente.
Ma neanche questa versione “annacquata” ( per usare le parole di Trump) ha avuto esito felice. Il giudice federale Derrick K. Watson ha bloccato su scala nazionale la seconda versione del “Travel ban”, con l’accusa di contenere discriminazioni religiose in contrasto con la Costituzione americana e precisamente con il Primo Emendamento (libertà di religione). Con il suo solito atteggiamento altisonante, Trump ha condannato l’intervento del giudice definendolo “un abuso giudiziario senza precedenti” e minacciando di presentarsi alla Corte Suprema per tornare al primo, e più rigido, “Muslim ban”. Di nuovo la corte d’appello il 25 maggio ha confermato la sentenza del giudice federale, sospendendo l’applicazione del decreto.
Trump questa volta non si è fatto intimidire e davvero si è rivolto dinnanzi alla Corte Suprema, presentando due ricorsi in cui chiedeva di annullare le sentenze nei gradi precedenti e ripristinare il “Travel ban” numero due.
Il giudice federale Derrick K. Watson ha bloccato su scala nazionale la seconda versione del “Travel ban”, con l’accusa di contenere discriminazioni religiose in contrasto con la Costituzione americana.
In questa occasione Trump ha ottenuto la prima, piccola, vittoria: l’Alta Corte ha deciso, infatti, che il “Muslim ban” si potrà applicare, ma solo a coloro che non hanno legami con una persona o entità negli Stati Uniti. Sono salvi così tutti gli studenti universitari che provengono molto spesso da paesi del Medio Oriente e che frequentemente sono tra i migliori studenti nelle più prestigiose università statunitensi. Sono altresì salvi i possessori della green card, ossia il permesso di residenza permanente, oltre a tutti coloro che viaggiano per lavoro e affari e coloro che hanno rapporti famigliari comprovati negli USA.
L’Alta Corte ha, però, rimandato ad ottobre 2017 la decisone finale sul Travel ban, cercando di sfuggire al problema: il divieto dei 90 giorni, infatti, è scaduto il 24 settembre e il divieto dei 120 giorni scadrà il 24 ottobre. Trump, temendo nuovamente una sconfitta, ha però aggirato il muro della Corte Suprema e a fine settembre ha varato un nuovo decreto. Dal “Muslim ban” si è passati all’ “Enemy ban”.

Quest’ultimo provvedimento oltre a confermare il bando per i cittadini provenienti da Siria, Iran, Libia, Yemen e Somalia (resta ora escluso il Sudan), impone il divieto di ingresso nel Paese anche ai cittadini del Ciad, ai cittadini con passaporto nordcoreano e ad alcune categorie di cittadini del Venezuela; tutti Paesi con cui l’amministrazione Trump ha pessimi rapporti. Per questo con l’ultimo decreto i giudici non potranno appellarsi alla discriminazione religiosa. Ora le regole sull’immigrazione da questi paesi sono omogenee e non più disciplinate Paese per Paese: questo confermerebbe l’assenza di discriminazione religiosa o etnica, causa dei fallimenti dei decreti precedenti.
Il criterio discriminante ora è davvero la difesa della nazione per impedire l’ingresso negli Stati Uniti ai nemici del Paese.
Ma il nuovo bando non sarà certo meno stringente, anzi: ora il divieto imposto è definitivo, mentre nei casi precedenti era a tempo determinato (90 o 120 giorni).
L’Enemy ban sarebbe dovuto entrare in vigore il 18 ottobre ma, poiché non c’è due senza tre, anche questo decreto è finito nelle mire dei giudici federali. Così, lo stesso giudice che aveva sospeso a marzo il secondo “Travel ban”, Derrick K. Watson, ha sospeso anche l’ultimo ordine esecutivo di Trump. Nelle 40 pagine di motivazioni, il giudice hawaiano ha scritto che il problema del nuovo divieto è la discriminazione in base alla nazionalità, in modo tale che contrasti con i valori fondanti degli Stati Uniti d’America. Inoltre, secondo il giudice Watson, non ci sono rilevanti prove a favore della tesi per cui sarebbero pericolosi per la nazione i 150 milioni di cittadini che verrebbero interdetti dagli Stati Uniti. La sospensione operata dal giudice riguarda i cittadini di Ciad, Iran, Libia, Siria, Yemen e Somalia, mentre non riguarda nordcoreani, venezuelani e iracheni. La reazione della Casa bianca è stata immediata e ha definito pericolosamente errata la decisione, sostenendo fermamente la necessità di queste restrizioni al fine di garantire standard minimi per l’integrità e la sicurezza della nazione. Il Dipartimento di Stato ha dichiarato di voler ricorrere velocemente contro la sentenza.
La Casa Bianca sostiene la necessità di queste restrizioni al fine di garantire standard minimi per l’integrità e la sicurezza della nazione.
Insomma, per ora davvero la partita si sta chiudendo 3-0 per i giudici, come ilarmente aveva fatto notare la Clinton festeggiando su twitter la prima sconfitta del “Muslim ban” a febbraio, dopo che i tre giudici avevano definitivamente bloccato il decreto numero uno. Oggi siamo al numero tre ma nulla pare cambiato. Nonostante la “guerra” sia ancora aperta, mi chiedo se l’uomo dei muri possa essere bloccato proprio da quelli eretti dalla giustizia americana. Ai posteri l’ardua sentenza.