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United States of Quo

Cosa è successo negli USA a inizio novembre?

Dopo molte ore confuse che hanno lasciato tanti Americani con il fiato sospeso, incollati ai media per seguire il lentissimo spoglio dei voti nei cruciali swing states, Joe Biden sarà il 46esimo Presidente degli Stati Uniti. L’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, continua a colpi di tweet e pool di avvocati a dichiararsi vincitore, sostenendo, senza alcuna prova, che vi siano stati brogli elettorali e rilanciando le sempreverdi teorie del complotto.

Nonostante la sua campagna di delegittimazione del sistema elettorale americano stia convincendo i suoi sostenitori (secondo un sondaggio di Politico, il 70% dei Repubblicani si dichiara convinto che le elezioni non siano state trasparenti) la strategia di Trump si configura più come l’ennesima operazione mediatica di un uomo incapace di accettare la sconfitta, che una reale speranza di ribaltare il risultato per mezzo dei tribunali: diversi ricorsi già avanzati a nome del suo comitato elettorale, sono stati respinti dalle Corti statali, per mancanza di prove o vizi di procedura.

Sembra maturata la consapevolezza all’interno dei vertici del Partito Repubblicano e dello stesso staff del Presidente (a partire dal genero, Jared Kushner) che la vittoria di Biden sia irreversibile; in questo clima di attesa regna la cautela nell’establishment repubblicano, ancora una volta restio a svincolarsi dal proprio leader, che rimarrà in carica fino a gennaio, vendicandosi di coloro che percepisce come poco leali – da ultimo il siluramento, ça va sans dire via Twitter, del segretario della Difesa, Mark Esper.

Tra chi difende a spada tratta il Presidente (la maggior parte dei senatori GOP) e chi lo critica apertamente (per lo più parlamentari non intenzionati a ricandidarsi o i soliti sospetti, l’ex candidato presidenziale Mitt Romney e la senatrice del Maine, Susan Collins), tutta l’attenzione è rivolta a Mitch McConnell, sempiterno leader dei repubblicani al Senato. McConnell, fresco di settima rielezione nel suo seggio del Kentucky, dove ha sconfitto con facilità la campagna milionaria della democratica Amy McGrath, è ancora una volta al centro dello scacchiere politico americano. Per il momento si è limitato ad appoggiare la battaglia legale del Presidente, ma senza inutili entusiasmi.

L’eventualità di un governo de facto Biden-McConnell, che terrorizza i giovani attivisti democratici, è quasi una certezza. Ma come si è arrivati a questo?

Dopo l’iniziale entusiasmo per la vittoria del ticket Biden-Harris, si sta aprendo nel Partito Democratico una fase di analisi della sconfitta (a cui il corrispettivo italiano è ben poco avvezzo), che ha riaperto faide intestine mai sopite tra l’ala radicale e quella moderata del partito. Se di sconfitta non si vuole parlare è a tutti gli effetti una vittoria di Pirro.

Anzitutto, ancora una volta le proiezioni dei media e soprattutto i sondaggi hanno sottovalutato, e di molto, il potere elettorale di Trump. Quella che si preannunciava essere una landslide victory, è stata una vittoria dai margini ben più risicati. Il notevole aumento dell’affluenza ha favorito ugualmente i due candidati, e una grande fetta del bacino elettorale trumpiano (per lo più maschile e rurale) ha riconfermato il suo sostegno al tycoon.

Nonostante gli innumerevoli scandali, le accuse di corruzione, l’impeachment e l’esplosione della questione razziale, il trumpismo è sopravvissuto indenne alla tornata elettorale: al punto che non è azzardato sostenere che se non fosse per la pessima gestione e scellerata sottovalutazione dell’epidemia, in termini non solo di salute pubblica ma anche economici (cavallo di battaglia di Trump), il presidente sarebbe stato riconfermato e i democratici nuovamente sconfitti.

Sempre stando ai sondaggi, i democratici avrebbero finalmente riconquistato la maggioranza in Senato. La matematica era infatti favorevole a un ribaltamento blu – 23 senatori a caccia della riconferma erano repubblicani e solo 12 seggi erano in mano ai democratici. Così non è stato: a fronte di due vittorie dei democratici su senatori in carica repubblicani (in Arizona e Colorado), i repubblicani hanno a loro volta riconfermato i loro seggi, strappando pure un seggio ai democratici in Oklahoma.

Ne consegue un risultato tutto sommato deludente, nonostante le grandi aspettative e gli ingenti capitali raccolti, che lascia il controllo della camera alta ai repubblicani (50 a 48), in attesa dell’esito delle elezioni speciali in Georgia che assegneranno gli ultimi due seggi il prossimo 5 gennaio. Insomma non si è ripetuta la blue wave delle elezioni midterm del 2018, che aveva portato i democratici a riconquistare il controllo della House of Representatives, la camera bassa. Al contrario, queste elezioni hanno consegnato ai democratici la maggioranza più risicata alla Camera, da vent’anni a questa parte.

In questo scenario, che condanna Biden a insediarsi con un Senato a maggioranza repubblicana, si inseriscono le reciproche recriminazioni delle due correnti del partito. Da una parte i radicali, capeggiati da Alexandria Ocasio-Cortez e la sua multietnica squad (Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Rashida Tlaib, tutte rielette nei loro seggi). Dall’altra l’establishment del partito, simboleggiato dai due leader al Congresso, la veterana Nancy Pelosi (che ha già espresso la sua intenzione di candidarsi ancora una volta come Speaker of The House) e il senatore newyorchese Chuck Schumer, leader di minoranza al Senato, bersagliato per la sua inerzia nelle sessioni di conferma alla Corte Suprema di Amy Coney Barrett.

I radicali contestano alla leadership di aver corteggiato il voti dei moderati (emblematica la scelta di ospitare l’ex governatore dell’Ohio, John Kasich, alla Convention Democratica), a discapito delle istanze che stanno a cuore agli elettori giovani e di colore. In particolare, sostenendo candidati moderati negli swing states, in grado di far convergere il voto dei repubblicani avversi a Trump; convergenza che non è avvenuta nei seggi cruciali (in Iowa, North Carolina, Montana e Maine).

Come ha fatto giustamente notare Ocasio-Cortez, i candidati progressisti sono stati di converso premiati dagli elettori. Inoltre, contesta la scelta di puntare su ingenti donazioni legate al mondo della finanza e dell’industria, invece che radicare le campagne elettorali sul territorio e utilizzare più efficacemente la comunicazione online.

I centristi, d’altro canto, ancorano l’insuccesso dei loro candidati alle perenni critiche interne e alla martellante retorica di Trump, abile ad associare il partito alle posizioni più oltranziste (per esempio le istanze per il taglio del budget delle forze dell’ordine e il divieto di fracking). É sempre Ocasio-Cortez a fare notare che i repubblicani in ogni caso avrebbero dipinto i democratici come dei pericolosi socialisti, quindi tanto valeva presentare un programma di riforme progressista in grado di scaldare la base elettorale.

Accettata la sconfitta alle primarie del loro padre spirituale, Bernie Sanders, i radicali dem hanno sostenuto senza eccessive riserve (a differenza di quanto avvenuto per Hillary Clinton) un ticket presidenziale decisamente poco riformista, almeno sulla carta: Joe Biden, che del pragmatismo centrista e della bipartizanship ha fatto un suo marchio di fabbrica e Kamala Harris, malvista per la sua gestione della procura generale californiana improntata al “law and order”. Ora reclamano un ruolo ben più decisivo nella gestione del partito, che tuttavia ha poche prospettive di tradursi in progetti ambiziosi di legislazione.

Il controllo repubblicano del Senato infatti osta a qualsiasi tipo di riforma radicale; appaiono del tutto irricevibili allo stato attuale i drastici interventi in materia ambientale (il costosissimo Green New Deal) e l’agognata riforma sanitaria universale (Medicare for All). I limiti del mancato controllo del Senato si esplicheranno prima ancora sulle persone di cui si circonderà il neopresidente: ogni membro del suo gabinetto dovrà infatti passare al vaglio del Senato, il che rende più plausibile immaginare qualche ministro repubblicano piuttosto che Bernie Sanders al Lavoro o Elizabeth Warren al Tesoro.

I risultati di queste elezioni paiono favorire una volta di più i partigiani dell’immobilismo. Si tratta dei soliti noti: il mondo delle corporations e della finanza, che ha iniettato enormi risorse nella campagna di Biden, la onnipresente ragnatela di lobby farmaceutiche e petrolifere che si vede allontanare ancora una volta la minaccia riformista. I più maliziosi penseranno (non senza fondamento) che Biden stesso si compiacerà del controllo repubblicano del Senato, che permetterà di imputare alla rigida opposizione di McConnell ogni scelta moderata.

A vincere è ancora una volta lo status quo.

Il rischio è che ci si convinca di essere tornati improvvisamente al 2015, come se questi quattro anni non fossero mai trascorsi, pensando che l’autorità morale di Biden e la cacciata di Trump siano sufficienti per abbattere il trumpismo. Come se dietro alla maschera di un incrementalismo posticcio, fatto di compromessi e sistematica moderazione, si possano risolvere le enormi contraddizioni che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca. Se da noi tutto cambia perchè nulla cambi, l’impressione è che oltreoceano nulla cambia perchè nulla cambi.