Allora, Stefano, il tuo impegno e il tuo lavoro sono entrambi molto difficili da descrivere, quindi inizierei dalle tue passioni. Quando hai iniziato a nutrire l’interesse per la fotografia e il viaggio?
La passione della fotografia e del viaggio sono congenite nel mio background familiare perché mio padre è appassionato di fotografia e entrambi i miei genitori sono viaggiatori per passione, però nel mio caso specifico ha iniziato a crescere un po’ di più negli anni dell’università. Facendo odontoiatria, ho dovuto spesso fotografare. In quegli anni facevo dei viaggi e delle vacanze al volo, magari anche delle gite brevi in montagna, e lì ho iniziato a rendermi conto che mi piaceva scattare foto. Così per la laurea ho chiesto in regalo una reflex. Da lì è partito un po’ tutto perché poi, con la prima autonomia economica, ho iniziato a pagarmi i primi viaggi, quindi si parla di quando avevo 25/26 anni e la cosa poi ha preso molto rapidamente una piega forte; all’inizio era un bisogno di immergermi in una bellezza superiore, perché nei miei viaggi ho avuto accesso a questo tipo di esperienza, soprattutto nella natura. Era un volerne sempre di più. Cercavo di creare un portfolio di fotografie che di per sé era fine a se stesso. Mi piaceva farlo e lo facevo.
Un aspetto importante della tua vita è quello di aver abbandonato la sicurezza di un lavoro che ti dava un introito economico stabile per fare un salto nel mondo della fotografia. Cosa ti ha portato a maturare questa scelta?
Allora, risponderci bene richiederebbe un giorno. È stato un processo multifattoriale, molto superficialmente si potrebbe pensare che lo abbia scelto perché mi piaceva, ma non basta quello. I fattori coinvolti sono stati da una parte una concomitanza di eventi che mi hanno portato a pensare che fosse quella la mia strada. Ma questo è stato solo l’inizio perché poi in un momento mi sono trovato o a dover ricostruire la mia carriera dentistica o a iniziare da zero qualcosa di nuovo. Nel dover scegliere ho fatto una serie di riflessioni che ruotavano soprattutto attorno al pensiero: “Chi è che perde di più? I miei pazienti che non avrebbero più avuto il loro dentista o le persone che nel frattempo si appassionavano sempre di più ai miei lavori, alle mie foto, al mio modo di raccontare?” Lì ho capito che c’era qualcosa di più importante della stabilità economica e quindi ci ho provato. È stato un momento in cui ho avuto l’impressione che quella fosse la mia missione. La mia scelta è stata più per senso del dovere. Lascio dietro di me tracce più belle quando faccio questo.
Arriviamo al progetto concreto di cui ti stai occupando: com’è nato SEVA project?![]()
Il progetto non è nato subito, è stato un processo di avvicinamento tra me e un mio amico, Simone Mazzini. Lui mi ha detto: “Stefano, i tuoi video mi hanno cambiato in positivo, non voglio che questo succeda solo a me. Facciamo qualcosa di più grande”. Così è emersa l’idea di creare dei documentari a scopo benefico da vendere su internet e impiegarne il ricavato per un’associazione. Tra le varie che abbiamo preso in considerazione, siamo entrati in contatto con questa azienda che pianta alberi. Ed è stata un’illuminazione. Piantare alberi è una cosa in cui ho sempre creduto.
Poi mi ero reso conto che tutte le informazioni legate all’ambiente erano comunicate male, generalmente con messaggi di paura, rabbia. Allora perché non provare a comunicare questi argomenti, anche l’aspetto scientifico e numerico del cambiamento ambientale, con più amore? Quindi raccontarle con il mio modo, appassionato, emotivo. Ho voluto ridefinire il modo di trasmettere queste informazioni, aggiungendo però un atto concreto. Non solo parole al vento, ma una raccolta fondi per fare qualcosa di positivo.
Da quello che mi hai detto, il documentario è intriso di positività. Ma hai mai avuto l’impressione che questi sforzi fossero vani, in un mondo in cui i governi sembrano mettere la questione ambientale in fondo alla lista?
Non sono state queste le ragioni per cui mi è capitato di vacillare. Non è l’indifferenza del mondo che mi ferma, anzi, è il motivo che mi spinge a proseguire. Se il mondo fosse già pronto ad andare in una direzione non ci sarebbe bisogno di incentivarla. Però il progetto ha rischiato di crollare un paio di volte. In particolar modo, il primo giorno di riprese in Islanda, il nostro cameraman ha avuto un infortunio molto serio. Abbiamo dovuto organizzarne il rimpatrio in urgenza. E mi sono detto: “qui casca tutto”. Ci siamo però reinventati completamente nel giro di una notte. In realtà poi l’ho presa come un segnale positivo. Quando fai qualcosa di bello, inevitabilmente attiri qualche ostacolo. È una cosa che ho sempre visto. La maggior parte di questi ostacoli possono spaventarti, ma se sei davvero determinato vai avanti lo stesso.
Quale suggerimento daresti ai giovani che ereditano questo mondo e che sono chiamati a prendersene cura?
Giovani quanto?
Puoi definirlo tu!
I giovani in questo momento siamo noi. Siamo quelli della mia età, della tua età, fino ancora ai quaranta e rotti anni, siamo noi quelli che si devono prendere cura del nostro pianeta. Quindi iniziare fin da subito a migliorare se stessi e acquisire uno stile di vita che sia sempre più sostenibile, tanto le cose da fare lo sappiamo tutti quali sono. Alcune sono molto semplici, come mangiare meno carne, idealmente diventare vegetariani. Questa è stata ampiamente dimostrata come una cosa che farebbe benissimo al nostro pianeta. E soprattutto trasferire il cambiamento alle generazioni successive. Se le nuove generazioni verranno formate direttamente in questa nuova normalità, l’ambiente sarà al centro delle nostre valutazioni. E non è una questione da idealisti o da figli dei fiori che fanno manifestazioni sventolando la bandiera della pace. È la consapevolezza che si tratta della casa in cui viviamo. Se non ci rendiamo conto che ci serve un equilibro tra quello che rende possibile la nostra vita e la nostra vita stessa, presto o tardi una delle due crolla.